giovedì 17 dicembre 2009

Bianco Natal?

qualche minuto fa mi sono svegliato. di solito, quando suona la sveglia del mio cellulare la spengo e mi riaddormento. ieri sera, in previsione di una giornata piena di improrogabili impegni, prima di addormentarmi ho scagliato il cellulare all'altro capo della stanza, in modo da obbligarmi, l'indomani, a scendere dal letto per disattivare l'allarme, limitando così il rischio di riaddormentarmi subito dopo.
poco fa, dunque, il suono acidulo dell'allarme mi viene in sogno, si mescola al sogno, si annoda al sogno. e giacché il sogno altro non è che me stesso, quel suono si annoda a me, mi accalappia e mi tira via dal sonno. alzo la testa, cerco di rintracciare il cellulare sul pavimento della stanza già illuminata, lo individuo, mi alzo dal letto, lo agguanto e zittisco la sua vocetta zelante. per un istante mi dico: torno a dormire. alzo lo sguardo verso la finestra. sono miope, non vedo un cazzo, a parte una luce opaca e chiarissima al tempo stesso. stringo gli occhi, mi avvicino alla finestra, mi coglie un sospetto. mi metto in fretta le lenti a contatto.

mercoledì 16 dicembre 2009

Mal più

c'è un gruppo fantastico che si chiama bad plus, e c'è un disco che questo gruppo qui ha fatto, e il disco si chiama "these are the vistas". ed è un disco fantastico, un disco di una libertà cremosa, impaziente, un po' nevralgica. un disco fatto di poliritmie, tagli, respiri, perplessità, insistenze, tentativi, rinunce, rumori.
chi conosce spotify sa che ad un certo punto ti ritrovi tuo malgrado la voce puttanesca di alicia keys o chi per lei che promuove la sua ultima porcata al gusto di lucidalabbra al gusto di fragola al gusto di caramella al gusto di zucchero al gusto di caffè al gusto di tazzina al gusto di lucidalabbra, e poi si torna alle note che hai scelto tu.
ascolto questo disco in quel che rimane della mia stanza, ancora una volta, un tempio pieno di oggetti tutti da intruppare, un cranio costretto ad angolo da poche travi gelate, una tempesta di spifferi inconsulti, un rifugio negli abissi. 
"these are the vistas" è un disco registrato in una maniera che ai più parrà un po' sorpassata, col basso tutto da una parte, il piano dall'altra, la batteria che si tiene in equilibrio al centro e va un po' di qua e un po' di là. a volte uno dei tre resta solo, poi quando non diresti ecco che gli altri tornano a dire qualcosa, e da buoni amici tutti si danno un po' fastidio l'uno con gli altri ma nessuno si lamenta, nessuno se la prende, nessuno vuol comandare, è una bella serata, si beve, ci si diverte, a volte ci si parla anche l'uno addosso all'altro, l'euforia ci rende tutti un po' prolissi, esuberanti, ci ascoltiamo o fingiamo di ascoltarci, ma che importa, stiamo insieme e tanto basta. e spesso e volentieri si fa un coro, e poi inevitabilmente il coro diventa un po' anarchico, si grida insieme in un finale delirante, poi uno s'alza in piedi e con un gesto secco dell'avambraccio stringe l'aria in un pugno, e zitti tutti. e giù una risata, o una sorsata. e poi di nuovo seri, e dopo un po' si riparte a parlare, magari di qualcosa di nuovo, anzi, sicuramente.
tra le gemme del disco c'è una cover di "smell like teen spirit", uno swing di quelli in cui ti immagini ride (raid) e bacchetta proprio come fossero un enorme lecca lecca agli agrumi col suo bastoncino, sempre incollati l'uno all'altro ma per sempre destinati a separarsi.
"everywhere you turn" è quasi una ballad, cadenzata, via via più solenne, col basso che pedala e il piano che dice poche cose, ma tutte importanti, ribadendo con un po' di compiacimento le frasi più riuscite, e la batteria che tira dritta, secca, senza tanti accenti. e dura tutto troppo poco.
in apertura c'era "big eater", lo dico ora perché ho fatto ripartire il disco, e l'ho fatto ripartire perché "big eater" è uno dei brani migliori, come si conviene al primo brano di un disco ben fatto.
ho ascoltato per la prima volta "these are the vistas" nel 2005, credo, l'ho senz'altro riascoltato in macchina nel 2006, è un disco del 2003, a momenti son passati 7 anni, sembra niente. e vabbè, forse non è un disco importante, non lo sarà mai, ma è bello, non c'è dubbio.
"boo-wah" è l'antiswing, l'antitema, l'antitempo, è l'inno alla dissociazione mentale, alla danza tutta interiore, intima e scatenata, come saltare sul letto, intruppare coi mobili, fare a spallate col muro, ma senza farsi male.
e poi viene "flim", versione addivanata del già troppo bel brano di aphex twin.
la cover di "heart of glass" è forse eccessivamente giocosa per metà, troppo didascalica per l'altra metà.
"silence is the question" è tutta nel titolo.
in "what love is this" si sente tutto il peso fisico del piano, ti accorgi cioè proprio del fatto che uno strumento così garbato è anche lo strumento più pesante del trio, con i suoi 250-500 kg. una batteria difficilmente ci arriva, specie nel jazz; un contrabbasso manco a parlarne.

martedì 1 dicembre 2009

La fretta è la virtù dei fratti

non posso concedermi più di dieci o quindici minuti per questo post, ma neppure voglio consegnare ai posteri un trafiletto stringato e inconcludente, e allora provo a dire tutto quello che c'è da dire badando poco allo stile, magari. perché da troppo tempo non pubblico nulla, e dacché pubblicare è soprattutto, se non esclusivamente, un'esigenza mia -molto vicina, come ho già avuto modo di spiegare altrove, in un altrove che andrete a cercarvi voi da soli, se proprio vi interessa saperne qualcosa, molto vicina, dicevo, al bisogno di liberarsi delle sostanze inessenziali al nutrimento, della merda insomma- dacché, dicevo, pubblicare è soprattutto se non esclusivamente una mia esigenza, allora tanto vale cacare in fretta, magari senza un buon libro tra le mani, senza un foglio di carta profumata, ancorché non igienica, da cui cogliere qualche epitaffio che faccia al caso dello stronzo di turno, epitaffio che nell'atto d'accompagnarlo nell'aldilà dell'ade, sappia tesserne di fronte ai vivi non dico le lodi, ma almeno.
e invece no, lo stronzo di oggi è condannato ad una fossa poco più che comune, è il frutto marcio di una di quelle prestazioni toelettali frettolose eppure indispensabili, e ancor prima, e forse questo è il punto su cui dovremmo centrare l'attenzione, è il frutto di una pratica alimentare frettolosa e ridotta all'indispensabile anch'essa, ecco. 
ma badiate, non si deve mai lasciare a metà un discorso, quale che sia l'argomento, questo è il punto. al più si dovrà riflettere bene sulle premesse, ma una volta che si è iniziato a dire, guai a tacere.
con la fretta che mi rifiata sul collo, una fretta -a dire il vero- boriosa e lenta, ohibò, ecco, con una fretta di questa foggia qui, di quelle frette che ci sono oggi, che non sono più come le frette di una volta, ecco, con questa fretta io non posso stare lì a controllare troppo la qualità dell'argomento, ma il punto, se non lo si fosse capito tuttavia, il punto è che la quantità dev'essere controllata e garantita, cioè a dire libera da ogni istanza di controllo, cioè torrenziale, cioè libera da ogni legame con le circostanze.
mi riservo di tornare su questa pagina quando avrò più tempo. lo so, sto lasciando a metà un discorso, ecco.

mercoledì 18 novembre 2009

Versi quel che versi



ed ho sorriso con un inchino


ma avevo il cuore 


a fazzoletto


stretto nel pugno di un bambino


col raffreddore



...



(a maurizio guerrucci)


mio caro amico mio, non si sa come

e dov’eri mai la seconda volta

quando al citofono, sì, c’era il nome

però la rosa l’avevano tolta

grazie per quel panino col salame

per quella birra calda, per tua moglie

per le racchette, i giochi col pallone

per la canzone


...


ho fame, ed è notte, si dorme

ho sonno ed è ora di andare

giornata distorta, con roma che è morta

valigie da fare, disfare

ti prego non dire pazienza

non dire lavoro, lavoro

il tempo che ingrassa, la luce che spezza

le ombre di gatti nel foro

ma passano i giorni più tristi

e arrivano canti di merlo

tra gli alberi fissi, le foglie ed i cesti

di pane del forno (ad averlo)

è già mezzogiorno, si mangia

è già mezzanotte, si spia

attorno alla chiave, la luce che filtra

e lui che con lei... mammamia!

ho fame ed è giorno, si mangia

ho sonno ed è tempo, si muore

giornata perfetta, con roma che aspetta

l'amore

lunedì 16 novembre 2009

De rerum satura

ora mi è chiaro: scrivo per il piacere di rileggermi. ed è solo per questo che imbottisco le mie trovaglie di ingredienti untuosi e talora indigesti. mi piacerebbe saper scovare le mie pietanze nei boschi o nei fiumi, e sapere come coglierle e pescarle, eppure la mia atroce pigrizia mi porta ancora a stanare le parole tra le mura albine di una cucina, cacciando io la testa nel frigo, anche sei o sette volte al giorno, anche di più, anche senza aver fame, anche senza mangiare poi nulla, solo a voler vedere che tempo fa nel mio scaffale, che misura hanno le mie uova, e se non abbiano per caso cambiato misura, e come se la cavano i miei cubetti di pancetta, le mie zucchine, e quanto resta da vivere ai miei formaggi da quattro soldi, ai miei pelati in scatola.
oppure le parole le cerco in bagno, il solo posto dove posso togliermi lo sfizio di sfanculare uno stronzo senza tanti complimenti, dove posso leggere tutta d'un fiato l'etichetta di una confezione di carta igienica senza vergognarmene (magari nell'atto stesso di sfanculare uno stronzo, e vogliate perdonarmi se insisto con questa volgarità, che a dispetto delle apparenze non è affatto gratuita, ovvero mi costa assai, perché non amo essere considerato una persona volgare, non nel senso volgare del termine; e nemmeno amo indurvi a disegnare con esattezza nelle vostre menti la mia solitudine escretoria; però ogni tanto è doveroso dire le cose come stanno, non sia mai che ci dimentichiamo il fatto di essere umani), dove posso guardarmi allo specchio e fare le facce, pettinarmi da idiota, mettermi gli occhiali rotti e sganciare un sorriso da locandina elettorale -con una naturalezza che nella vita sociale non mi riesce per via della mia dentantura irregolare- e misurarmi il girovita con il filo interdentale, e via discorrendo.
bisognerebbe avere i coglioni di scrivere come si parla, come si mangia, invece di stare sempre lì a voler provocare lo strabuzzo altrui. invidio chi non si sforza di piacere, chi salta a pie' pari i problemi di forma e senza fiatare dà un verso alle proprie sostanze, proprio come si fa coi propri rifiuti organici, tanto per tornare -con toni stavolta accettabili, nevvero?- su un campo semantico a me caro.
ma, vedete, che speranza ho io, se scrivo "proprio" tre volte nel giro di otto parole? se lo facessi apposta allora sarei un poeta, evviva il poeta!, ma io sono sgraziato di natura, sono perennemente distratto dalle forme secche, sinuose o panciute dei caratteri che batto, non sono poeta, non sono nemmeno prota, e ogni mio sforzo è volto a dispiacere, a non farmi capire da nessuno e per nessuna ragione al mondo.
se non ci riesco -il che è molto probabile-, se ancora qualcosa vi arriva, ô miei sparuti fedeli e grati amabili seguaci inesistenti, allora sì che ho perso tutto, ho fallito fino in fondo, perché non ho ottenuto quello che volevo, quello per cui mi sforzavo. e questo fallimento è cibo per la mia inedia.
cibo per la mia inedia: trovatemi qualcuno che sia capace di simili spirali retoriche.

oppure le parole le cerco in camera, sul disfare del giorno, insieme a te che giustamente non conosci la parte e non puoi suggerirmele, se anche lo volessi.

giovedì 22 ottobre 2009

Si sta come d'estate/sugli alberi la frutta

ed io che sono di una specie inestinguibile, come le mosche, e finalmente mi sento comune, normale, banale, mortale dopo secoli dementi di rincorsa ad un grappolo di sogni ingrati, io: che posso mai sperarmi dal domani, quando quella cazzo di sveglia suonerà?
capitolare giù dalle lenzuola che bramano un giro in lavatrice,
sul tappeto crespo barcollare, d'aspirapolvere una passata supplicante,
rotolare giù per le severe scale un po' avvitate, come un doppiopetto d'ebano
sdocciarmi l'odio dalla faccia,
soffocare nel buio del guardaroba nella vana speme di accostare per bene tessuti e colori e versarmi così almeno degnamente stracciato alla ribalta del mondo, spennato sebbene e claudicante.
che odio proletario, mi scorre tra i rami secchi che ho dentro, che bollìo di viscere nere.
e corro alla stazione, sui talloni del vento, coi pugni che trattengono le lacrime, di corsa verso una lezione di fifofofia o latinese, con la testa girata indietro, con addosso certi sguardi domandosi che c'è da aver paura, ma una paura fottuta.
e per di più c'è chi si toglie il lusso di non aver niente da dirmi,
e mi andrebbe di dormire su una catasta di chiamate polverose,
di sentir squillare il telefono per anni e far finta di niente, accarezzandomi la barba che poco a poco cresce lontano, a guisa di siepe che mi asconda, fino a radicarsi nel parquet, dove la secca protesi scopre un mondo ribaltato, un mondo dove si cresce piccoli e si muore nati.
che razza di scherzo m'ha giocato la vita, quando a chi mi adornava fece credere che fossi da grave intelligenza affetto, sicché mi si finisse per non dare in regalo che libri, i quali tutti gialli ancora giacciono sugli scaffali di una casa che non è già più la mia, e solo io so il segreto: non li ho mai letti.
musa, niente mai ti chiesi che un po' d'ordine, coerenza. ma da quell'orecchio tu non ci senti, e mi desti -nel senso di m'hai dato, e non già di mi svegli- mi desti, dicevo, un paio d'occhiali e una fantasia cane.
che me ne faccio io di queste pagine che scrivo,
non hanno dignità nemmeno di banchetto alla stazione,
potessi almeno sputare sulla china, e fare tutto il foglio nero, scancellando con due dita quel che ho scritto.
ma se sputo sullo schermo luminoso dopo c'è una sola cosa che io possa fare: pulire.
e c'è persino chi si toglie il lusso di non darmi una risposta,
fosse anche una risata in faccia.
i morti son morti,
vedremo il mondo, parigi
vita mia, a noi due.

martedì 20 ottobre 2009

Untitled

e stavolta un ciglio di piuma, invece, mi ha sfogliato la pelle, lasciandomela almeno per un po' liscia e sospesa, dopo tempi in cui certe cose andavano pian piano, come una quercia, svanendo al tempo stesso nel seme buio e stretto di una notte sola, o qualche. è vero, mi ha scheggiato un trepido barlume di scemenza, mi ha colto di strisciata.
forse sarò una volta ancora io a perdere per strada la ragione e a dover stare indietro per cercarla, penoso e stropicciato, a terra con due mani e ginocchioni. ma in me ci crede un dio buono e cattivo, che mi dice di fare no col capo, e di gettare forte il sasso nero oltre la siepe, perché non è creanza che germogli nel petto di una storia senza libro. 
al quale ambiguo dio, chiederò io perché mai non si possa smarrirci insieme, io e ciglio di piuma, barlume di scemenza, a cercare quella ragione in due, con quattro mani, e meno stropicciati e senza pena.
facciamo finta che non faccia niente, che sia uno scherzo come tanti scherzi.
oppure no?

martedì 22 settembre 2009

Nuxi budra

insonnia è pari un'ambulanza vuota che impazza attraverso la città deserta, di notte fonda, quando del sole nemmeno l'ombra.
con le case senza nessuno dentro, solo luci accese senza nessuno.
e le strade fradice a specchio, a specchio di niente, perché non c'è occhio che veda, non c'è cuore che dolga. nessuno che stia male.
è quando sei in mezzo ad un campo di pallone e sei stanco, e fai ruotare gli avambracci uno attorno all'altro per far capire alla panchina che basta, sei stanco, e vuoi uscire, chiedi il cambio, non ti va più di giocare. ma nessuno se ne fotte, e continuano a passarti la palla, e devi partecipare, devi fare l'azione, devi farla fare, non te ne puoi liberare.
tale e quale partire senza biglietto in tasca per un viaggio lungo una vita, col terrore perpetuo che alla prossima salga il controllore. e che magari salga in borghese, vestito anzi da suora, e da un momento all'altro "tac", e ti fa schioccare il tesserino sotto al naso. e invece lui non sale mai, e tu non scendi, e il terrore sta giusto lì, in mezzo tra te e lui.
insonnia è un bicchiere sul comodino con dentro mezzo bicchiere d'acqua di ieri: sì, un bicchiere con dentro mezzo bicchiere, e allora? perché altrimenti spiegatemi voi come si fa ad avere sul comodino mezzo bicchiere d'acqua punto e basta. i mezzi bicchieri non li fanno più, sono usciti fuori produzione, oggigiorno fanno solo i bicchieri, mi sembra. e correggetemi, se avete il coraggio.
spiccicato quando scendi le scale e ti ritrovi al piano di sopra, e se anche volessi tornare indietro per forza di cose devi scendere di nuovo, e così via fino a che di grazia scivoli su un lego da quattro pìroli per due, e capitomboli nemmeno tu sai dove, ma quello che è certo è che hai cambiato sogno. che è facile come cambiare canale, salvo che il telecomando ce l'ha in mano un altro, un altro che non vedrai mai, perché ti sta negli occhi.
e nell'altro sogno non riesci a capire bene che cosa sei diventato, sai solo che sei appena sveglio e ti fa male la schiena manco t'avessero pestato la notte intera, e non ti ricordi più cosa devi fare. non ti ricordi nemmeno che non l'hai mai saputo, cosa dovevi fare. e forse è meglio così, che non te lo ricordi, così almeno ti resta l'illusione che una volta lo sapevi, e puoi sempre raccontare a qualcuno che non è colpa tua, e che semplicemente te lo sei dimenticato.
proprio come.
e ti viene in testa un'equazione semplice, tanto semplice che se ti fermi a pensarci la guasti: e cioè che se a farci del male il più delle volte sono quelli che amiamo, allora dovremmo metterci a far del bene a chi ci detesta. e a ben guardare è questa la rivoluzione definitiva, quella che non muove un passo in nessuna direzione, quella che è in atto da quando esiste la nostra specie, quella che ammette che l'uomo è arrivato, e da quel momento più di tanto lontano non può arrivare e più di tanto uomo non può essere, e deve farla finita di scassare i coglioni.
come a dire: ma secondo te cosa c'è oltre l'universo?
oltre l'universo non c'è niente che possa minimamente interessarti.

lunedì 24 agosto 2009

Tempi Miti


per le vetrine estatiche della biblioteca, dal di dentro, è plausibile che lo sguardo guizzi sui tetti di Sparigi, ratto più di cento gatti neri neri, in cerca, se non altro, della ragione. dapprima la ragione tenera, quella fallibile di confondersi col panico, cioè a dire quando ci si sente rappresi intorno alla bocca dello stomaco.
e poi la ragione madre, madre di ogni pensiero degno di tanto nome, che è quando si passa in rassegna l'inesplicabilità degli esistenti.

ed ecco che, proprio laddove si cercava tra le sagome l'immoto -il grido inaudito di quello scintillante ed inviso cuore di gemma nera che è la certezza, impermeabile al soffio della vita o viceversa incapace di penetrare in essa- ecco, ecco che il tuono rivela uno stormo di tortore, o di rondini, che prima non c'era, che nasce da uno spavento del tutto impersonale, e che pure nello spavento poi resta solido, non si sparpaglia, non disdegna coreografie millimetriche, trasfigurando -nella curvilinea levità di qualche raro istante- l'istinto di sopravvivenza in un gesto che quasi quasi è contrario a tale istinto: l'arte.
è dunque l'arte così vicina alla vita, la vita tutta sola, quella che ha a che vedere cogli uomini quanto coi maiali e le micorrize, e i polli arrosto stesi ad asciugare, e le sale da tè e i tacchi sull'asfalto?
un altro indizio l'ebbi sulla terrazza di casa, mentre che sciorinavo intimi lavati a mano. cercavo nel cielo uno strascico di cometa, e niente.
ma la cosa più bella era il gommare lontano di mille automobili invisibili.
di colpo mi è venuto in mente un viaggio notturno in pulmann, uno qualsiasi. no, non è vero: uno in particolare, quello da edimburgo a londra, 9 anni fa.
nove anni fa.
è evidente, mi pare, che il mito sia l'anello di conigunzione tra il caso e la certezza.

domenica 16 agosto 2009

Atomia

la domenica somiglia ad un giorno di malattia. se non andavo a scuola scoprivo un mattino moribondo, sempre uguale, senza brivido. una volta scemata la dolcezza di quell'ora in più di sonno, tutto sprofondava indistintamente in uno scatolone di giochi mezzi rotti. un polverone giallo, verso le 10, tagliava in due la stanza. 
ci sono luci che restano impresse perché son rare, altro che tramonti: la luce, appunto, di una tarda mattinata d'inverno trascorsa in casa anziché a scuola. con le finestre insolitamente spalancate, per ridare ossigeno a luoghi altrimenti gonfi di anidride carbonica, come lattine di coca-cola.
ma oggi non è domenica, oggi è giovedì, e devo andare a lavorare, ancorché nel tardo pomeriggio. e non sono nei luoghi di sempre, sono nei luoghi di mai. sono a Parigi, o Sparigi, o Les Lilas, o dovunque vogliate, in fin dei conti. fino a prova contraria.

le luci in terrazza sono sorde, appannate per via di un cielo che non promette niente di buono, ma al tempo stesso non colpisce, non si lascia andare. di tanto in tanto arriva una zaffa leggermente fresca. sono io questo cielo, adesso tutto mi è chiaro. bella cazzata, eh?
mannò, è così, ciascuno di noi vive su un elettrone di ciascuno degli atomi che compongono le cellule di cui siamo fatti.
questa non è una teoria, è una certezza assoluta, non c'è altra spiegazione: così è fatto il cosmo.
tutti noi viviamo in Atomia, e vi dirò di più: nulla è accaduto prima della nostra nascita. prima della nascita di ciascuno di noi.
tutto ciò è perfettamente coerente, se ci pensate bene: noi tutti coesistiamo ma in un mondo di cui ciascuno di noi è abitatore irrimediabilmente solitario. tutti i tempi coesistono in un solo tempo immemore di qualsivoglia storia, tutto è fermo da sempre all'istante immediatamente precedente un big bang che non avverrà mai. proprio come questo cielo terrorista, qui, sopra la mia testa. la vita -ohibò- è una specie di cortometraggio che somiglia tanto ad un fermo fotogramma.
come si fa dunque ad essere pessimisti? non c'è scelta, questo intendo, non c'è niente da piangere. e chi vuol ridere, faccia pure, non c'è proprio niente di male.

ripenso a quella scena di Momo -il film di Schaaf basato sul romanzo di Ende che non ho letto- in cui, se non invento, la piccola si aggira tra gli spazi di un tempo immobile.
non so se rendo l'idea, ma questo è tutto ciò che sento di dover fare.
per caso ho trovato, poi, uno stralcio di romanzo che si addice al mio cazzeggio:

« Allora, ti trovi bene qui? » chiese uno degli uomini.
« Sì », rispose Momo.
« E pensi di fermarti qui? »
« Sì, magari! »
« Ma non ti aspettano da qualche parte? »
« No. »
« Voglio dire, non devi tornare a casa? »
« Io qui sono a casa », assicurò prontamente Momo.
« Da dove vieni, bambina? »
Momo fece con la mano un gesto vago indicando un punto qualsiasi, comunque distante.
« Chi sono i tuoi genitori? » continuò a domandare l’uomo.
La bimbetta guardò perplessa lui e gli altri e fece un’alzatina di spalle. Quelli del gruppetto si scambiarono un’occhiata e sospirarono.
« Non aver paura, non vogliamo scacciarti », continuò l’uomo, « vogliamo aiutarti. »
Momo annuì, zitta e non del tutto convinta.
« Hai detto che ti chiami Momo, vero? »
« Sì. »
« È un bel nome, ma è la prima volta che lo sento. Chi te lo ha dato? »
« Io », disse Momo.
« Da te ti sei chiamata così? »
« Sì. »
« Quando sei nata? »
Momo ci pensò un po’ su e infine disse: « Se mi ricordo bene, ci sono sempre stata »


fino a gennaio sarò vacataire d'accueil nella sezione musica della biblioteca del centro georges pompidou. il mio lavoro consiste nello stare seduto al mio bureau.
passo il mio tempo a dialogare più o meno seriamente col collega di turno o a scartabellare uno a caso tra centinaia e centinaia di libri di musica: che so, il trattato d'armonia di schoenberg, qualche lurido libello perennemente conteso tra ingegneria del suono e filosofia contemporanea, qualche spartito, qualche manualetto sulle forme della tradizione classica.

ciò che latita ancora è un progetto con un capo e una coda, un qualcosa di rognoso da fare, da fare sul serio. ovvero un qualcosa da non fare, una sana fonte di nuovi -ancorché non proprio inediti- sensi di colpa. verrà.

sabato 15 agosto 2009

Interkenzo

è sbocciato un bel sole sulla mia terrazza, nella sonnolenta città dei lillà.
sono una pietra, una perla nera, minuscola, del peso di un pianeta, ferma al centro di un turbo che in un solo gesto disperde e raccoglie, spazza via e inghiotte. tutto si muove e io sto lì.
ma stamane mi sono svegliato col bisogno preciso di una sfida nuova. è il sentimento più banale che mi abbia mai sfiorato di primo mattino -tralasciando che l'orologio segnava mezzogiornomenunquarto.

nell'intanto vado a farmi quattro bracciate in piscina, il che da sempre stimola la diuresi del mio processore.

martedì 4 agosto 2009

La colpa

è che mi hanno attraversato generazioni intere di amici. che dico amici: conoscenti.
sono stato un fumatore giallo, un bevitore rosso, un mangiatore nero. un nuotatore celeste, un corridore verde acqua. è che mi hanno quasi tirato dietro insulti come: ladro! ladro di notte! ladro di piccole ore vacue! figlio di una siepe! 
ladro! di luci, di odori! scarpa vecchia!
è che mi hanno offerto un bastoncino di zucchero, ed erano sconosciuti. e quant'è vero che non bisogna accettare doni dagli sconosciuti -menchemeno caramelle-, tant'è vero che la generosità degli sconosciuti merita riconoscenza.
un ladro, però, accetta doni di malgrado.
e il punto è questo: è che da anni giro attorno ad una nota, o due, o tre, massimo sette, o dodici. o più.
sono stato un musicista, lo sono stato senza colore; talento è il nome di una moneta. e il denaro è qualcosa che a farne ci vuole tanto, e a disfarsene ci vuole poco e niente. come ogni cosa, più o meno. come ogni cosa e il suo contrario.
come pulire e sporcare. come seminare e dissipare, come cucinare e mangiare. come l'amore e la guerra.
prenderei indietro la fede negli altari mesti delle case di una volta, e nei ceri, se potessi avere dodici anni e ricominciare tutto da capo. che dico dodici: quindici, diciannove, ventitré. che dico: ventinove anni di meno: zero.
se potessi riacciuffare lì da dove ho smesso di credere e gioire per certe minuscole cose.
mi viene da dire che l'uomo nasca fiore e crepi legno.
ma io voglio tornare a leccare le pagine caramellate di un catalogo di sogni, come facevo su balconi poveri estivi, tagliato in due da una ghigliottina saracena, mezzo nel sole e nel cicaleccio, l'altra metà nel fresco della stanza, alla sesta ora. quello sì che era amore.
amore, quando tutto era possibile, e tutto era vero. e la mia chitarra scassava il cazzo a tutto il paese. e una volta mi si disse persino che certi miei suoni sguaiati avevano schiattato una mucca. vidi con questi occhi il contadino che dava al fuoco quella salma, quel martire, quella prima vittima incolpevole dei miei capricci.
e se allora certi parenti larghi di bocca e spietati, dal balcone accanto, tra le lacrime m'avessero sibilato all'orecchio, nel silenzio, mi avessero sibilato, dicevo, che andava a finire così, e insomma m'avessero detto:

"bimbetto! la musica è bella, ma pensa alla vita che avanza!"

là, io mi sarei sganasciato, lo giuro, 
e avrei fatto tutto un impasto di voce ed orgoglio:

"sarò quel che voglio. la colpa è la tua, che non ci hai creduto abbastanza."

domenica 2 agosto 2009

Ipse dixit

qualcuno ha utilizzato la teiera e non ha avuto cura, poi, di vuotarla di certi petali e scorze, e d'un liquido direi rosso, sicché ho dovuto provvedermi l'infuso presso una specie di bacinella di biancoccio, una conca da brodo di cane. ci ho tirato dentro una zolletta e mezza e, per non inzaccherare un cucchiaino, ho fatto ondeggiare il sacchetto dell'infuso nell'acqua appena calda, sicché quest'ultima ha assunto un colorito ambrato mentre lo zucchero migrava dalla vista al gusto.
passeggiando funambolico su per una breve rampa di scale con la ciotola tra due mani, mi sono rifugiato nella suite avvampata a sorseggiare il preparato oramai tiepido, rimarcando come i primi sorsi fossero decisamente buoni e giusti, i secondi velati di melodramandorlàmara, i terzi ed ultimi contesi tral dominio agropiccante tipico dei poli di batteria stilo e quello puttanesco del miele millefiori.
di fuori, incessante e lieve, frigge una bella pioggia verde. tant'è che mentre l'acqua si apprestava all'infusione, sono uscito a recuperare una settimana di mutande e calzini stesi a bagnarsi.

martedì 21 luglio 2009

Est eSt esT


prima che la sera tardi, prima che la notte fonda, bisognerà che il lettore medio capisca il congiuntivo.
mi hanno fatto notare che abito in un paese tranquillo, Lilas. un paese dell'est, quel tanto che basta lontano dal brusio; la mia stanza è oramai una spaziosissima soffitta e accoglientissima. è davvero un posto da scrittori, questo. un posto non da cani, non da topi, né da zanzare. un posto da leopardi, forse. con l'unzione postuma di un ottimismo erasmico, ma senza tutto quel rincoglionimento tardadolescenziale, grazie al cielo.
è un posto, allora, che fa per me, io che non sono iscritto agli scrittori e mai lo sarò, ma che ho deciso, una volta tanto, di ardire allo statuto d'artista, come tutti gli artisti fanno da che mondo è sfondo.
te lo fai scrivere sul documento, ed ecco fatto, lo sei. come me, che settimane fa -poche- all'impiegata della posta dissi: musicista. e quella lì sulla mia scheda ha scritto musicista, senza fiatare o distogliere mai lo sguardo dalla sozzura che la punta della biro sua andava lasciandosi dietro -sul foglio pocoanzi non dico bianco ma insomma quasi- in quel dissennato, sciagurato sfregamento: tant'è che per le poste francesi, se glielo chiedi, quel tale di nome beluga higuerra in Arte transfuga è nientepopodimenoché un musicista.
un musicista assurdamente privato di ogni strumento, ivi compresa quella fantasia burda e merlettosa di cui un tempo le sue meningi furono dolorosamente gonfie, come due coglioni.
insomma mi han fatto notare che c'è tutto quel che serve, nella casa e nel quartiere. e nella limitrofa città, vabbè, grazie al cazzo. e io da me ci avevo fatto caso, per carità; ma certo: se qualcuno mi è d'accordo allora tutto assume una credibilità francamente diversa.
mi hanno fatto notare che non c'è da chiedersi o da voltarsi, che non c'è da piangere o da capire un bel niente.
non ho chissà quanto tempo per certe riflessioni aride; ho più tempo, molto più tempo per qualche affondo di spensieratezza.

giovedì 16 luglio 2009

Scale


la voce di martin oltremura suona una specie di messa, tutta di una nota, di quelle solo parlate, che ti verrebbe da saltar fuori dalla stanza per dire, di tanto in tanto: ora pro nobis.
non fosse che poi gli scappa da ridere, ma sempre così, un po' di legno, come se nell'atto di farlo chiedesse anche un po' il permesso.
c'è da chiedersi che mai ci faccia marketa nel suo letto, marketa!, che è una ragazza simpatica, metà greca, con gli occhi stretti un po' spennellati verso le orecchie. parte domani. è sua ospite. ecco che ci fa nel suo letto.
e poi tutto sommato è simpatico anche lui, martin, anche se parla una sola lingua, ed è una di quelle lingue che io non conosco. e non è il greco, ma è bensì la lingua dell'altra metà di marketa.
io e martin siamo gli abitatori di una piramide, di una specie di giza, di casa storta, o di pisa. davide è partito in bicicletta, lontano, e io ho deciso di occupare la sua stanza, che è il doppio della mia, e non è solo un fatto di dimensioni. domani intenterò questo trasloco interno.
è come se me lo aspettassi, a giudicare dalla mia stanza attuale: mi aspettavo di dover andare a stare altrove, un piano più in su. lo si capisce dal fatto che la stanza attuale l'ho mantenuta vuota e silenziosa, in queste due settimane e mezzo. vado a stare in quella che fu di davide, partito in bicicletta, che è il doppio della mia, davide che faceva il cameriere ed è andato via, e sta un piano più in su, la camera, in questa casa grande, e che non tornerà, in questa casa a un passo dalla Piovra eppure quasi quasi spersa in mezzo ad una campagna tramontesca, che ci si sente il canto de' picchi, quasi un cartone animato, con certi soli che dire arancio è poco e dire limone è troppo.
sempre così, è, il tempo: sempre diverso, sempre marzo, ottobre. un istante sferza il cristallo di qualche brezza, con una nube, una luce seria, oggettiva; l'istante appresso ecco un pugno di caldo, un bassoventre sudato, e non è chiaro da dove venga l'abbaglio. il silenzio e subito il fragore della tempesta, un climeggiare che ahimé ricorda tanto l'andamento di una vita, qui a Sparigi. variabile.
mai e poi mai si sa come vestirsi o come spogliarsi.
ma male non si sta mai. si sta bene.
nell'intanto io mi lascio crescere la barba, che non se ne importa nessuno, né sulla metro né al lavoro, né quando prendo un panino né quando vado in banca. nessuno.
il lavoro in biblioteca è presto per dirlo, ma ha tutta l'aria d'essere leggero, calmo.
l'altro lavoro è meno spensierato e peggio pagato. ma insieme si assortiscono bene, e in soldoni lavoro poco e guadagno tra l'abbastanza e il molto. e non mi sveglio mai presto.
fine primo tempo.

venerdì 12 giugno 2009

You have to be great


chiamare per se stessi un'ambulanza è un'esperienza che va fatta, prima o dopo, nella vita.
credere di stare vivendo gli ultimi istanti della propria breve esistenza è abbastanza spiacevole.
scoprire ad un tratto che la propria fine non è imminente -la diagnosi è ipoglicemia e conseguente crisi di panico- e vedersi circondati da persone che soffrono davvero ti rimette al mondo, ti squarcia il cuore in due. e se prima piangevi perché non capivi cosa stesse succedendo, ora piangi perché c'è una bambina che ha dato una craniata al cavallo a dondolo, nel giardino dell'asilo. piange anche sua madre, e cerca di dissimulare.
ma i grandi, di solito, sanno mantenere la calma.
a me non era mai capitato di perdere la mia in questo modo. di non sapere cosa fare se non chiedere aiuto a qualche sconosciuto: potete chiamare qualcuno? mi sento male. 
due ragazze molto giovani mi guardano incredule per alcuni secondi, poi si guardano tra loro come un ventriloquo col suo pupazzo, poi accennano ad impugnare il cellulare, che in qualsiasi altra situazione avrebbero saputo maneggiare con una certa disinvoltura.
e intanto io, accasciato sulle scale mobili della stazione, ho già fatto il 118. mandate un'ambulanza, sto male. ho ventotto anni, anzi, ventinove.
plano fino al gabbiotto della metro roma, mi sento mancare, scoppio in lacrime. di qui in poi è una storia in discesa. ricevo le prime cure dal personale della stazione, mi offrono un bicchiere d'acqua e un flauto del mulino bianco, all'albicocca. personale che ben presto inizia a interessarsi alla mia vita privata:

- ti droghi? soffri di crisi di panico? 
- no. no. 
- sta' tranquillo che va tutto bene.
- per il momento mi concedo il lusso di dubitarne.

arriva l'ambulanza, mi rimorchia e procede verso l'ospedale ad un'andatura funebre, il che mi fa supporre -paradosso- che davvero la mia vita non è in pericolo.
tuttavia in ospedale mi visitano quasi subito, cose da non credere, se avevo una frattura scomposta hai voglia te ad aspettare. il colloquio col giovane medico, una ragazza paffuta, si trasforma in un siparietto onirico:

- prendi farmaci per l'ansia?
- sì, prendo farmaci per l'asma.
- insomma te ne vai a parigi?
- vediamo cosa ne pensa mia madre.

e di tanto in tanto un'infermiera di incerta provenienza intervalla le battute tra me e il medico con qualche esclamazione popolare, ogni volta in un dialetto diverso.
è tutto. mi fanno uscire da quella porta "da cui normalmente non si potrebbe uscire".
rieccomi nel sole, col mio respiro, il cuore che va per conto suo, in silenzio, le lacrime ancora appese agli angoli degli occhi.

sarà che stavolta ho davvero cambiato tutto.
sarà che per quanti sogni, desideri, bisogni, volontà, opportunità e libertà e cazzi e mazzi io possa avere, bon, non so davvero cosa mi attenda a Parigi.
sarà che, se anche il viaggio dovesse rivelarsi una banale vacanza, di quelle lunghe e anche un po' noiose, niente è più uguale a prima.

sarà che per la prima volta ho deciso qualcosa per me stesso.
c'est incroyable.

lunedì 8 giugno 2009

Sim Camille



psicotico-ti
psicotico-tà

mi si sgrana di dosso la pelle, un bicchiere di cristo, frastorna, vetro molle, è l'estate che annegra.
eccola, è passata un'automobile degli anni ottanta, settanta, nemmeno:
Simca Mille
sfrecciava, coi sedili di quelli neri neri, che magari era pelle, e che dolori coi calzoni corti, e che nausea, una specie di sugo di carne, l'aria, in quei pomeriggi là, tra stecchini colorati di cotone per le orecchie, dei quali
-mi si spieghi come-
la rena era zeppa. come pietre preziose.
ero piccolo, io, ma già tutto formato, come ora, uguale.
tutto mi era già come sarebbe stato, senza ombra, senza errore.
e non esistono le cicatrici, non è il coltello.
ma c'era in mezzo anche la felicità, che è come quando mi dicevano
"siamo quasi arrivati"
e il sedile era freddo e io contavo fino a Mille. e io non arrivavo a Mille, e noi non arrivavamo mai.
Simca Mille.

mercoledì 3 giugno 2009

E-stanze


ma che peccato che non siano in cinquecento, in mille, in millecinquecento a leggere le mie storie. che peccato non essere Collodi o Dante, Ovidio o Steinbeck, Kafka, Checov, Li Po, Chaucer, Esopo, Gadda, Joyce, chiunque, chiunque abbia per sé una pagina, che dico, mezza pagina, mezza fottuta pagina in una qualsiasi antologia della letteratura del cazzo.
che fatica non essere nato per questo, che strazio. che peccato che non siate un milione, due milioni, un miliardo. che vergogna non essere tradotti in novantanove lingue, non aver mai pubblicato un best seller, non aver mai pubblicato.
non è giusto non essere nati per fare gli scrittori, che diamine.
diamine: Pianigiani si rifà a Caix e vi individua una "fusione occasionata dall'usanza comune di cominciare una esclamazione con una mala parola e finire con una buona": dia(volo)+(do)mine.
ogni istanza rimanda a un'altra istanza, la domanda è una maschera su una maschera su una maschera. tolte tutte le maschere qualcosa resta, non è vero che non resta niente. c'è una domanda mitica, orientale, rozza come una clava, all'origine di tutte le domande del mondo.
e come ogni domanda, quella domanda è una risposta, una e non più d'una.
fatto si è che io creda che ogni ferita dello spirito venga dal non aver ascoltato quella domanda/risposta. si è sempre in tempo per ascoltare.
come l'altra sera, che si diceva che nella vita pre-natale noi siamo lì a scrivere quello che saremo dopo, e poi quando nasciamo abbiam perso la memoria, però nel nostro dna è scritta una storia che dobbiamo arrivare a leggere.
ecco: la vita è sempre una strada dritta, o almeno a questo segretamente aspira.
il progetto che abbiamo varato per noi stessi non è affatto semplice da riconoscere, anzi, diciamo pure che è molto difficile riconoscerlo. ma in un modo o nell'altro, prima o dopo, bene o male lo riconosciamo.
Alexander Heigen Van Klouten afferma che il dna non ha buon gioco nel compiersi perché ha da scontrarsi con le aspirazioni di miliardi di altri dna. bisogna essere d'unque cazzuti assai per far valere la propria storia sulle altre.
sono d'accordo con Van Klouten, ma credo anche che a ben pensarci la nostra storia la riconosciamo molto molto presto; e noi stessi siamo portati a complicarla per un motivo semplice: le trame prevedibili sono noiose.
adesso però ho da chiudere anche l'ultima parentesi retrograda, perché manca davvero poco alla mia spedizione e ho tante cose da fare. e mi servono due braccia così, un cervello a forma di cono d'acciaio, stomaco di cuoio, faccia come il culo.
una specie di mazinga.

martedì 2 giugno 2009

Ai tiùns

non c'è paura di castrazione.
balleremo, danzeremo.
è che quando ci sono due frastorni insieme tutto è in ordine.
di tanto in tanto mi si rimprovera qualcosa. a volte è che non mi lascio andare, altre volte è che scrivo per scrivere, che in realtà non dico nulla.
e ora una tromba, un'orchestra. una cosa un po' strana, a dire il vero. strano, è così che si definisce ciò che non siamo in grado di definire. ma bello però. magari un tocco di disordine, ma bello.
ma in fin dei conti il blog è mio e ci faccio quello che mi pare. è questo il bello. per la cronaca si tratta di alber ayler. la grande storia del jazz.
non posso non tacere un fatto: sono sparite delle foto, e questo mi ha fatto stare male. non ho capito bene come sia potuto succedere, e non mi piace.
avrei tanto voluto che non ci fosse paura di castrazione, e che si potesse davvero ballare.
ma invece qualcosa nella mia testa non ha mai funzionato, e ci siamo trovati troppo spesso fermi a guardare il brutto del mondo, a pensare, a pesare. a riempirci le rispettive facce di schiaffi rossi e squillanti.
APPLAUSO
rullatina di chiusura
poi musica al contrario
stavolta sono i death cab for cutie
io li amo
sono strepitosi, sempre
non c'è una nota che non mi vada giù, vorrei essere loro
è come l'amore, vorrei essere lei, vorrei essere te, avrei voluto
ma ora sono quasi lontano, quasi sull'aereo, quasi perduto, quasi vivo
tra le altre cose al tavolo stasera si diceva che dovremmo liberare il romanticismo che è parte di ognuno di noi, lasciare che parli, che dica quello che vuole, senza paura di essere ingoiato dal buonsenso, non ci interessa.
è bello pensare ad una mansarda al sesto piano, senza ascensore.
la musica va sfumando, dopo che certe voci hanno ribadito un certo concetto abbastanza a lungo,
e poi di nuovo quegli accordi mandati al contrario, e ancora voci, ma più lontane, più di donna.
e poi rallenta, poi ti fa capire che sta finendo, ma non finisce ancora, piano piano svanisce, senza svanire, ecco ora c'è, ora quasi non c'è più, ecco.
e poi silenzio.
chitarre.
cinema show, genesis.
stiamo a sentire.
non ho memoria per ciò che conosco meglio.
ora sì, ora va meglio, accordi rassicuranti.
peter gabriel, lo odio, non ho mai tollerato la sua voce, troppe parole, troppa voce, igombrante.
sarebbe stato bello sentirli senza di lui, per sfregio.
cantina, appartamento, scale.
forse l'obiettivo è davvero quello, raggiungere il sesto piano a piedi con una sbronza sulla coscienza.
ecco phil collins, finalmente, la batteria.
troppi accordi.
vorrei invece una musica stupida, in cui non succede niente, succede poco, quello che basta.
dovrebbe essere così.
mi chiedo come sia possibile dire di conoscersi e poi non riuscire a fare le cose più naturali, come parlare, o addirittura non parlare affatto.
come quella volta, che c'era quella strana serranda di canapa e stavamo in mezzo alla strada.
na na na na na na na na na na na na na
e probabilmente stavamo in mezzo alla strada senza saperlo, e sai di che parlo.
skippo, perché è consentito farlo, i genesis durano troppo.
ecco elio e le storie tese, gimmi I.
e poi c'è bisio che racconta le barze di pierino.
skippo, skippo ancora,
e poi qualcuno che sembra stephen malkmus. mi piace lui, molto, forse mi piace perché piace solo a me.
e tutte quelle volte che non si capiva bene perché.

domenica 31 maggio 2009

Nuovo post


non resta che scrivere un nuovo post. occorre che affondi il bisogno di scippare il senno agli dei.
perché poi finisce che si ricomincia, e non è un bel modo di finire, questo l'abbiamo detto tante volte eppure è sempre il caso di ribadirlo.
il notturno n3 è un coacervo di rifiuti umani e io non faccio eccezione. certo, sono meglio della sbrattata prossima alla discesa, giù in fondo al mezzo, e del suo ex proprietario ceruleo, e probabilmente la vita ha sorriso più a me che non a quel mucchio d'ossa grigie raschiate dall'eroina qui accanto. tutti pieni di sonno e perlopiù senza denti. e poi io.
non mi chiedo che ci faccia in mezzo a quest'umanità devastata.
mi dico solo che ci si presenta un dovere preciso, un dovere soffice che è il dovere di essere felici.
è proprio questo che intendo quando dico che non si può più scippare il senno agli dei.
scippare il senno agli dei è come levarsi la sete col prosciutto, né più né meno. è come rubare il poco agli idioti.
bisogna svegliarsi al mattino, all'ora che meglio conviene, e cessare ogni trottoleria, all'istante. a farci girare la testa ci pensano i sogni. nel resto del tempo sarà meglio attivare una volta per sempre quel barlume di speranzoso raziocinio che ci contraddistingue.
ultimamente insisto su questo, sul fatto cioè che bisogna rammentarsi quello che siamo, stupendi regolarmente iscritti alla facoltà di intendere e volere presso l'universo degli stupidi. lo è -iscritto- chiunque lo voglia, senza distinzioni, nei termini efficacemente descritti nell'articolo 3 della Costituzione, ad esempio, e non solo.
va sempre, sempre tenuto a mente questo:
1. se vuoi qualcosa prendi quel che vuoi. se non vuoi quel qualcosa non prendere neanche quello che c'è intorno, sotto, sopra, dietro, davanti, di lato o di fianco a quel qualcosa.
e questo:
2. non siamo nati per essere nulla: siamo nati per accettare il fatto di essere nulla.
e questo:
3. se non vuoi niente, va bene, nessun problema. ma rammenta sempre che hai il dovere di essere felice.
e questo:
4. l'illusione non è sempre inganno. a volte ci illudiamo di star male e invece stiamo piuttosto bene.

definitivamente, bisogna soffiare via il dubbio e appigliarsi alla certezza di cui al punto 2.

giovedì 28 maggio 2009

Il mio ragno per un cavallo

per un istante ho creduto che avrei citato ligabue. il cantante, intendo. anche perché di citare un pittore non sarei capace.
ma il punto è che ligabue mi fa cagare, come i rem, gigi d'alessio e pochi altri. gente che non sopporto, che non capisco.
la verità è che, come sempre da quando mi conosco, il mio punto di vista sulle cose varia ad una velocità pazzesca. o forse varia perché non mi conosco, e infatti da quando ho iniziato a conoscermi meglio, in effetti, il mio punto di vista sulle cose varia un po' meno velocemente.
il fatto è che certe volte ascolto la radio, e ho la sensazione di non essere solo, e non perché c'è una voce che mi parla, ma piuttosto perché ci sono orecchi che ascoltano quella voce esattamente come fanno i miei.
il fatto è che a volte le strade mi sembrano lunghe, interminabili, e un istante dopo eccomi a destinazione.
mi rendo conto che il mio modo di ragionare, che poi è il mio modo di scrivere, è una specie di relativismo spiroide e ascientifico, dotato di principi forti e labili fini, fini nel duplice senso di conclusioni e di scopi.
e il fatto è anche che quando uno cessa di essere stanco allora avverte la stanchezza vera, quella che guarisce col riposo. mentre quando si è stanchi non si ha mai voglia di riposare.
come dire che ora, ora che non oserei cambiare una virgola di quel che è stato, semmai si potesse, riesco a stare al tempo stesso in ambienti diversi. diciamo che c'è un momento in cui la velocità diventa tanto vertiginosa che si ha la sensazione di stare sempre in un punto, in un centro. o forse si è talmente fermi da subire con maggior forza (direi con maggior debolezza) l'attrazione di quel centro.
di nuovo e sempre quel relativismo spiroide e ascientifico che è quello che io sono e penso e scrivo. di nuovo e sempre.
la somma è semplice: se potessi scambiarmi la vita con qualcuno, mi prenderei la mia. ma sul serio, però. proprio così: darei la mia vita in cambio della mia vita.
e la cosa assurda è che ho la sensazione che si possa fare.

martedì 26 maggio 2009

Articoli

quando tutto inizia a prendere forma è possibile che niente inizi a perdere sostanza, e allora vuol dire che le cose girano per il verso giusto piuttosto che andar dritte per la strada sbagliata.
quest'inizio testimonia del fatto -e nient'altro- che preferisco giocare con le parole piuttosto che essere serio con le cose. non è detto che una cosa escluda l'altra, ma è detto senz'ombra che l'altra non esclude l'una.
e perché mai adesso questo nodo, questo laccio emostatico? perché? questo mezzo bisogno di tornare al regno della preterintenzione, della colpa, del piove? è proprio che non c'è da scherzare.
con le cose c'è da essere seri, anche se si scherza con le parole.
non bisogna dimenticare l'inviso, bisogna tenerlo da conto, mostrarlo a se stessi quando serve.
il concetto è molto semplice, sebbene possa risultare incomprensibile ai più: si può scegliere se calcare il dolore innecessario oppure cavalcare la più macchinosa delle felicità. è difficile sottrarsi al desiderio del vacuo. dover riconoscere i confini dello spazio dà la nausea, impastarsi col nero è una fine comoda. ma se la fine arriva prima della fine, allora è la fine davvero.

quindi c'è l'urgenza di un inizio, di una sublime fiorescenza di inizi
lontano dai versi petulanti, dalle fluttuazioni in orbita,
dagli evitamenti e dai forsemegliocosì. non mi interessa ascoltare. posso fingere, se va bene a voi.

in fondo, a ben guardare, è tutto chiaro, anche se non ci arrivano i raggi del sole. nel fondo, intendo.

lunedì 25 maggio 2009

Marmo r.t.o.


come una molletta per topi, il sospetto di non poter smettere di scrivere mi morde il tallone vanificando ogni mio tentativo di fuga.
stamane ho aperto gli occhi ed ero sveglio. e non è una cosa normale, non è affatto ovvio. è questo il genere di cose che mi fanno correre al riparo -ahi, la morsa- mi impongono di scrollare via qualche parola dalle dita, con le cattive, col ghigno, con occhi gialli su fondo nero.
la città era una centrifuga impazzita, complice un accompagnatore dotato di uno spiccato senso dell'umorismo (ma non del limite). il mercato erano tre tende in croce, e poi il deserto, nessuno, niente.
andiamo avanti, anche se sembra idiota, avanti a scrivere.
ma io non ho più niente da dire!
scrivi!
ma...
basta, ho detto scrivi, va' avanti, scrivi.
scrivo.
ma ogni parola pesa, il mio foglio è di marmo, lo scalpello è piombo, ogni lettera è spasmo, è sudore.
niente ma.
e non salvare, non rimandare, non trattenere, non aspettare, non guardare, non rileggere, soprattutto.
va' avanti avanti avanti, non ti fermare, non trattenere.
si è brutti a volte, bisogna starci. oggi scrivo brutto, orrendo, oggi non so.

domenica 24 maggio 2009

O dagli inferi, ma piove


tra l'indice e il medio c'è un altro dito, mi han detto, che è invisibile ma conta come gli altri. e se includi questo dito invisibile, che si chiama inviso, allora conti fino a sei e sei dodici. mi hanno detto anche che, pur trovandosi tra il medio e l'indice, il dito inviso va contato sempre per ultimo, perché se lo diteggi come terzo di sei -secondo l'ordine tradizionale, dal pollice al mignolo- va a finire che qualcosa non ti torna.
è curioso che questa notizia, un po' stranetta per la verità, mi giunga ora. ora che ho conferito una mezza specie di svolta razio-cinica alla mia vita, al mio blog, alla mia barba e dio solo sa a cos'altro ancora.
la notizia staordinaria sbraca il passo all'unificazione dei due principi ontologici del being human (e non già dello human being, 'ccoperché non ho utilizzato l'espressione essere umano, in cui l'infinito ha funzione nominale, mentre a me quell'essere serve in una funzione verbale che l'espressione italiana non sa restituire):
1. il pollice opponibile (di cui si occupa, diciamo, l'antropologia fisica);
2. la facoltà d'astrazione (che ha a che fare invece, per farla breve, con l'antropologia culturale).
i suddetti principi vanno d'unque tra loro a unificarsi con la scoperta dell'inviso poiché esso è al contempo φύσις e ψυχή, fenomeno e noumeno, geometria e algebra.
se il pollice è la chiave dell'opposizione e del consenso, l'indice addita, il medio sa offendere, l'anulare è testimone talora falso e il mignolo fa la pace, l'inviso è il dito che determina l'intenzionalità dei gesti. ognuna delle funzioni digitali sopradescritte può infatti essere compiuta in modo consapevole e responsabile, circostanziata e utile, oppure no.
l'inviso in buona pratica sottrae alla mano la facoltà astrattiva intesa come defunzionalizzazione del gesto, per restituirle essa facoltà nelle forme e nelle sostanze della produzione simbolica.
il che significa, molto semplicemente, che senza l'inviso la mano non sarebbe capace di produrre senso e non saprebbe generare gesti non finalizzati alla comunicazione o a qualsivoglia altra funzione utile all'evoluzione della specie umana.

sabato 23 maggio 2009

Il sonno della ragione genera mostre


un modo efficace per evitare di rileggersi ad oltranza -ciò che è incepparsi in una viziosa, immobile vanità del cazzo- è scrivere, scrivere di nuovo. vanitosissimamente scrivere.
il punto è che gli umani, esseri non scevri d'un'irritante faciloneria, tendono a confondere quasi sempre il mezzo col fine, la causa con l'effetto, il contenente col contenuto, la metafora con la metonimia, l'orologio con la bussola, il cuore con la testa, il diavolo con l'acquasanta. sia chiaro che qui il termine "confondere" non sta a designare alcunché di negativo; la confusione è una pratica auspicabile, positiva e creativa, purché sospinta da una robusta dose di rà-ziò-nà-lì-tà.
d'unque ciò che ho affermato su in cima sta a dire che scrivere è un mezzo utile ad evitare di leggersi, e per estensione vivere è un mezzo per evitarsi la morte, ma sarà chiaro al più idiota di voi che se uno non ha pugno per scrivere e non ha polso per vivere deve consegnarsi al gomito, il quale sa produrre all'uopo un olio dalle proprietà miracolose.
quindi, per dirla con altre parole, quando vengono a mancare l'ispirazione e l'aspirazione, che sono rispettivamente la linfa dell'arte e quella della vita, bisogna appellarsi senza appello ad una musa brutta, cafona e intransigente: questa musa si chiama Fatica.
Fatica è come il rospo delle fiabe, se la baci o lasci che per una lunga notte alberghi sul tuo cuscino poi si trasforma in qualcosa di diverso. Fatica va intesa come confusione razionale:
1. perché è pur sempre vero che si può faticare tanto ottenendo poco, ma ciò significa che si è faticato a cazzo di cane. il tale disse, e dipinse, che ad andare a letto senza ragione si finisce per ritrovarsi in camera col rospo, o animali d'altro genere. insomma, è chiaro: la ragione del sonno non mostra generi.
2. perché è vero anche che razionalità senza confusione equivale a prevedibilità.

lasciatemi andare vi prego.

giovedì 21 maggio 2009

Bay Journey


non ho davvero alcun bisogno di sentirmi ridicolo.
certe volte pare sia quasi inevitabile. ma non è mai utile, fidati.
ci si rende ridicoli quando si è costretti a dimostrare qualcosa. ma ci sono due precisazioni da fare: in primo luogo, ci si costringe quasi sempre da soli a dover dimostrare qualcosa; secondo, molto spesso la costrizione e il gesto che la incarna si instaurano nel giro di pochissimi istanti d'orologio, nell'arco di un tempo impossibile da gestire, nel mezzo di un gorgo di segnali per niente facili da decifrare. ed ecco che "qualcosa" fa sì che gli occhi siano su di noi, tutti, fissi, e ciascuno sguardo s'accompagna ad un paio d'orecchie, ad una bocca tesa in un sorriso innaturale, ad un'espressione via via più imbarazzata di fronte alla nostra figura loffia.
ma è peggio, molto peggio, quando noi solo siamo testimoni del nostro ridicolo, noi e nessun altro.
quando il desiderio di rivalsa ci abbaglia e ci coglie un tremore alle mani, quando vogliamo conquistare e invece aggrediamo o ammicchiamo con troppa veemenza, quando ostentiamo indifferenza ma ci bolle il sangue, quando improvvisamente una forza misteriosa e fugace ci mette in bocca una barzelletta o un aneddoto da raccontare, dileguandosi subito dopo (la forza) tra gli alberi, tra gli alberi lontano.
per chi conserva una dose d'autostima, sentirsi ridicolo è un segnale che c'è qualcosa da fare, qualcosa di molto semplice da fare: tornare ad essere presenti. chi è ridicolo è assente, di lui si ride alle spalle, in volto gli si mostra solo un velo di pietà solidale, di comprensione pallida.

sono stato ridicolo tutte le volte in cui non ho saputo imporre le mie esigenze, è molto semplice. sono stato ridicolo a me stesso quando ho permesso che l'arroganza e l'ingiustizia mi calcassero il tacco nella gola, quando non ho avuto la prontezza di dire: vaffanculo.
senza esclamativo.
sono stato ridicolo quando ho pensato di fare tutto da solo.
lo sono stato quando non ho voluto farcela da solo.
sono stato ridicolo quando c'era di che andare via e sono rimasto, quando era meglio restare e sono andato via, quando avrei dovuto trattenermi lontano e invece sono tornato.
sono stato ridicolo quando ho tentato di trasformare la nausea in piacere, quando ho spiato, quando ho sperato.

ed eccomi presente, a disperare, a capire che la nausea è la nausea e il piacere non ha niente a che fare con la nausea, eccomi coerente, eccomi capace di chiedere aiuto, eccomi dire vaffanculo.
eccomi ripudiare, eccomi vomitare, se è necessario. eccomi credere e affermare potentissimamente che la felicità è un dovere, e che mi viene da piangere quando vedo un uomo solo che mangia una pizzetta scaldata in un bar, la sera; e mi viene da piangere non perché immagino la sua infelicità, ma al contrario, perché a ben guardare non c'è niente di infelice nel fatto di non avere niente da raccontare e nessuno con cui condividere l'assalto improvviso della fame, della sete, del sonno, di ogni bisogno primario.
è infelice non avere la forza di esprimersi.

eccomi parlare come un adolescente maledetto, mucciniano, eccomi spremere ogni brufolo con gran dispiego di poltiglie chiare, tra il bianco e il giallo.
eccomi dire che sono esausto di inesprimermi.

i sogni sanno dettarci in un istante circostanze e situazioni complesse, e convincerci che quelle circostanze e quelle situazioni siano perfettamente plausibili, accettabili e financo reali, persino quando ci accorgiamo perfettamente di essere immersi in un semplice sogno.
mi chiedo come mai da svegli ci voglia così tanto a capire cosa stia accadendo.

mercoledì 20 maggio 2009

Arbitro Liberio



di certo non merito più un giaciglio in grembo al mondo.
devo poggiare i piedi.
non c'è giustizia senza libertà, e viceversa.

ecco quelle che si direbbero alcune frasi isolate, e invece no.

di certo non merito più un giaciglio in grembo al mondo. sono semplicemente troppo grande per accomodarmi sulle ginocchia di una madre qualsiasi. non so perché, mi viene in mente vinz, ripenso a tutte le volte che ho schernito la sua saggezza un po' anomala. come tutti, egli ha dei difetti, e deve difenderli dall'assalto della perfezione. la perfezione è un'idea nefasta, odora di incenso e contiene il terrore tacito della confessione. di rado in vita mia ho provato un disagio pornografico superiore a quello della clausura confessionale; l'alito di dio mortificato nella flatulenza orale dell'intonacato d'ufficio.
al mio dio ho tagliato le gambe.
al mio demone ho garantito troppi alimenti.
a vinz ho negato il diritto all'errore.
si vede che era un periodo così, in cui non sapevo far di meglio che farmi mattone e infilarmi nel mio muro.
ti chiedo scusa, mente anonima che leggi nel silenzio. anzi, ti porgo le mie scuse senza pretendere alcunché a baratto. non posso dire che sia stato ingiusto alzare un gran casino. di certo è stato ingiusto chiedere a me stesso di essere leggero se non lo ero.
non c'è giustizia senza libertà, e viceversa.

credo sia un bene che vada via lontano.
devo poggiare i piedi.

martedì 19 maggio 2009

Domande mal poste

oggi mi hanno detto grossomodo che la mia scrittura s'è arenata, che mi censuro un po'.
dev'essere vero, com'è vero che la censura interviene proprio laddove si intravede un pensiero pericoloso. un pensiero pericoloso in tanti casi significa un pensiero utile, suscettibile di piacere a molti.
hai visto mai che mi censuro, dunque, per paura di piacermi troppo?
al di là della cazzata che ho appena detto, vorrei provare a scrivere davvero di getto, senza pesare troppo le parole.
e quel "pesare" che ho scritto poco avanti è un lapsus, avrei scritto "pensare", con una N tra la E e la S. ma è andata così.
più di una volta ho pensato (aridaje) che se la mia scrittura arranca è perché mi fermo a rileggermi, e mi incastro in un moto spiroide, scomposto, come una brutta frattura.
scrivere senza censura non significa per forza produrre una serie di volgarità gratuite. il pensiero utile non è volgare e non è gratuito, eppure procede senza inibizione. è così che vorrei pensare: senza pesare.
procedere senza arretrare è l'unico modo che conosca per diventare adulti. così mi dissero una volta: si diventa adulti non già quando ci si sposa o si va a vivere da soli, ma quando sottoponiamo simili questioni ad un vaglio serio e responsabile, sottraendole di forza al dominio dell'idea e dell'aspirazione.
aggiungerei che si diventa adulti quando tocca stare svegli la notte per trarsi fuori da una tasca vuota, o da un cuore nero, coincidenza retrattiva per appassionati dell'insignificato. già, perché nera è semmai la picca, che appare come un cuore rovesciato e munito di gambo, quasi una specie di foglia.
andare avanti significa ahimé perdere anche il filo, non di rado. tirare su un discorso che non tenga conto del passato mnemonico, ma di quello corporeo.
lo so che non mi spiego bene, ma non ha alcuna importanza, perché ciascuna delle parole che scrivo è dimentica della precedente precedente, è dimentica della

il corpo ci dice che fare è più semplice che dire, il dire ci riempie la bocca di stupide ipotesi e indicativi futuri, il fare predilige inaspettatamente il passato prossimo, e ci si ritrova già fatti senza aver avuto il tempo di dire A.
questo è adulto, svegliarsi una mattina senza avere in testa lo straccio di un'idea, svegliarsi e andare.
può sembrare idiota ma non lo è.

pregherò il cielo di asciugarmi da quest'insonnia avida, che mi vincola ancora alla dea Idea, come fosse qualcosa che si può mangiare, toccare e quant'altro. e invece adulto è animale, è sapere esattamente cosa e non chiedersi come nemmeno per un istante. è trarsi fuori da una tasca vuota senza fiatare, senza chiamare qualcuno in nostro aiuto, senza rompere i coglioni, in sostanza.

e già che ci sono inizia a piacermi questa cosa dello scrivere senza specchietti retrovisori, o specchietti per allodole e altri uccelli. perché adulto è anche decidere di ribaltare l'universo una volta per tutte, e credere che andrà bene, perché male non può andare, una volta appurato che prima o dopo tutto quanto in qualche modo ineluttabilmente finisce.

per non dire del fatto che ciascuno di noi può testimoniare di essere vivo, ma ad oggi nessuna fonte autorevole ha riferito mai di qualcuno che dicesse in prima persona "io sono morto" se non in senso traslato o in previsione di un qualcosa che ovviamente non s'era avverato ancora al momento della dichiarazione.
tant'è che tutti possiamo dire che la vita è, e quindi sarebbe il caso di viverla fuori dall'angoscia del perché, immersi finalmente in un mondo di fatti e misfatti, di affermazioni e negazioni, di io e di te, senza cercare risposte.

e se mai ammettessimo domande e risposte, teniamo a mente che non esistono risposte sbagliate, esistono solo domande mal poste.

lunedì 18 maggio 2009

Intervallo

esattamente due anni fa accadde qualcosa che avrebbe per lungo tempo congestionato le mie emozioni.
niente di grave, in teoria; fu qualcosa, però, che mi diede l'esatta misura della mia inconsistenza, della mia incapacità di vivere una vita emotivamente sostenibile. da allora ho iniziato a spiarmi. il tempo e la fatica mi hanno svelato cose che di me non sapevo; mi hanno timidamente suggerito come dare spazio a desideri che appartengano solo a me.

sarebbe stato enormemente più bello scoprire per tempo che i desideri miei e quelli degli altri potevano coincidere.
ma senza quel delirio non avrei mai riconosciuto le condizioni essenziali alla condivisione di un desiderio.

domenica 10 maggio 2009

Cul de sac

(testo e musica e voce di luca gaigher)

mi viene in mente una notte di tanto tempo fa, ma nemmeno troppo tempo. una notte gommosa, rifrangente, una specie di buco nero, una notte che non passa mai, che dura un'ora, mezz'ora, senza sonno. una notte dei tempi. la tormenta silenziosa, l'ossessione, la nausea, la lucidità, le certezze fioche di un'alba che somiglia tanto ad un tramonto, perché è già ora di alzarsi eppure non è mai arrivata l'ora di dormire.
ci sono notti in cui la coda di un incubo ci fa svegliare di colpo e ci sorprendiamo a pensare che tutto sommato l'incubo era anche un po' meglio di questa stanza semivuota, di quest'aria vischiosa, di queste voci gotiche d'uccello oltre la finestra puntellata oramai di piccoli ovali celesti. e ci si chiede come potrà mai darsi un giorno più giorno di così, una veglia più veglia di così. chiudo gli occhi.

apro gli occhi e mi ritrovo il cellulare in mano, è una specie di frutto nero. lo schermo mi informa che dovrei essere al lavoro da un quarto d'ora, bestemmio iddio blasfeta, salto giù dal soppalco che geme, beccheggia, mi metto addosso le cose di ieri, di poco fa, faccia, denti, macchina, lavoro. mezz'ora di ritardo ma non importa, non importa niente a nessuno, non c'è nessuno a parte me.

questa sì che è una droga seria: l'adrenalina. gratuita entro determinate quantità, pericolosissima. resta da capire come si fa a procurarsene una dose nella notte dei tempi, quella notte lì, rifrangente, quella che non passa mai e dura un'ora, neanche, e che ti inghiotte e che ti vomita lontano.

sì, perché l'adrenalina si compra solo a suon di ritardo e soprassalto, ritardo e soprassalto. e io sono dipendente da questa specie di pioggia sottile, infinitesima, interiore, calda, fredda, vapore di stella. come l'estate che avvampa, che è una lacrima enorme e stordisce, e rende enormi mosconi.

ho meritato sonni tranquilli e ho indossato i panni dell'incubo, guardandomi sbalordo allo specchio nero di quella notte lì, di cui s'è detto. chiedevo che non ci fosse bisogno di schiantare ogni speranza prima di farsi del bene, che si potesse sparire in un qualche mare tiepido senza per questo giocare a nascondersi nell'abisso e riemergere con la faccia di pesce lanterna, con lo sguardo scolpito nell'ombra, con in mano una tazza di acqua calda che ha l'odore inconfondibile del rimedio.
la pozione, l'elisir, è inodore, invece.

avrei dovuto giocarmi per tempo il ruolo del pianoforte a coda, come un demonio, senza coperchio, così che ci si potesse sdraiare sui tasti e suonarli tutti in uno e così da poter stregare una buona volta e senza appello quello stradone secco, quello degli operai magiari che giocano a carte all'impiedi.

quello di quando ero così lontano che non si riusciva a vedere quanto fossi bello.

domenica 3 maggio 2009

Buona sostanza

in luogo zero -ovverosia a guisa di premessa- oserei dire che, a seguito del commento n° 6 al mio post precedente, ho maturato l'idea che un post non debba necessariamente essere -come fin troppo sovente accade- un'occasione di confronto. a dire il vero quest'idea era ben salda in me un'infinità di tempo prima che la "maturassi", ma si vede che per un po' me n'ero dimenticato: m'ero scordato del fatto che lo scrivere, in sostanza, è un qualcosa che non si discosta mai troppo dall'edonismo dei caratteri stampati o luminosi per i quali passa e da quello dei suoni interiori o esteriori che lo stesso scrivere suo malgrado produce.
in altre parole non c'è mezzo e non c'è fine; e questa è la sola premessa utile ad uno svolgimento che sia sano davvero, sul foglio bianco come sul foglio elettronico, come nella vita.
ecco, io in primo luogo volevo chiedere scusa se mi ostino ad omettere le maiuscole, tipo enrico brizzi nel suo romanzo più noto. ma non è il residuo di un vezzo tardo-adolescenziale, il mio. è che le mie mani hanno una coscienza, coscienza che s'è formata negli anni elettrici ed ellittici dell'università, anni in cui ho fatto un uso consistente di microsoft word, per compilare un paio di tesi di laurea e una decina -forse- di relazioni/saggi/tesine: tutta una serie di questioni, insomma, che si risolvevano genericamente alle 5 del mattino del giorno della consegna, con una sigaretta tra i denti, nell'aria salata, in finestra.
e si sa -questo è il punto- che word le maiuscole te le mette in automatico.  quindi, insomma, mi sono abituato a scrivere senza badare allo shift e -anche questo si sa- quando ci si abitua a una comodità è difficile tornare indietro.*

* se è per questo, word ti fa tutta una sfilza di correzioni automatiche non richieste.
ora, i più occhialuti tra voi obietteranno che un computer fa esattamente quello che gli ordini di fare, né più né meno. i più simpatici sapranno ammettere che invece il computer ha una propria autonomia, e un carattere ben definito. al che gli occhialuti, per recuperare in extremis un barlume di simpatia, ribatteranno: sì, d'accordo, il computer ha un carattere ben definito, ma è lo stesso per tutti i computer: un carattere da stronzo.
tante parole per dire, insomma, che il vezzo della minuscola non è mi è vezzo, ma vizio.
c'è anche il fatto che, per l'allergia che mi dà la carta -non in termini fisiologici, ma figuràti- non scrivo mai a mezzo di penna o matita. e il foglio elettronico spesso mi si impone col suo blank, colmandomi, vuotandomi, empiendomi di niente.
e qui, poco avanti, in una frase, ho detto tutto, tutto quello che volevo dire: che cioè ogni cosa è senza dubbio il contrario di sé: così come blank e black hanno la stessa radice, e quindi l'assenza di colore o la somma di tutti i colori in qualche modo si equivalgono.

e questo, tutto questo, era grossomodo ieri.
oggi è diverso, è già un secondo luogo. il lunedì mattina dormo, dormo fino a non poterne più, a non volerne. poi bevo mezzo litro d'acqua, mangio un paio di gallette di riso. mi faccio un tè.
mi dico che si può stare così, lontani dal tabacco e da altre sostanze.
mi dico che, se per caso in una vita tutto fallisse, ci si dovrebbe per tempo ricordare almeno del corpo, e dargli un'esistenza sana; sicché -come si crede- la mente si conservi sana assieme al corpo.
queste considerazioni spontanee me ne ispirano un'altra, meno spontanea:
prima di tutto, quelli che chiamiamo "piaceri del corpo" sono cose troppo facilmente confondibili con l'eccesso, il vizio. eviterò di addurre argomentazioni di foggia chiesastica. quello che voglio dire è che il corpo, che è un prodotto della natura, prova piacere quando smettiamo di tormentarlo. lungi da me un percorso a ritroso che giunga alla negazione della società contemporanea quale fonte di ogni squilibrio cosmico: l'uomo e il tormento nascono insieme; la tassa sul macinato, l'industrializzazione, l'informatica e la televisione non c'entrano niente.
voglio solo dire: non dovremmo lasciare giusto un po' in pace -almeno ogni tanto- l'involucro che ci contiene, che contiene il nostro io, il nostro ?
questo non è difficile: è impossibile, perché la vita di una persona qualsiasi è perlopiù una strada -spesso asfaltata- irta di condizioni, coalizioni, colazioni, immolazioni, ammortamenti, documenti, indumenti, mal di denti, mal di testa, mal di stomaco, stitichezza, stanchezza, stanze, distanze, ritardi, torte, feste, cene, pizze da asporto, mezzi di trasporto, mezze minerali, sali minerali, fuochi artificiali, finzioni, protesi, ipotesi, tesi, tensioni, distensioni, indigestioni, alka-seltzer, casette, calzette, cazzi e mazzi, zoccole, zuccheri, cucchiaini, cappuccini, zaini, libri, lezioni, lettori mp3, cuffie stereo, coffee break, pause, impegni, agendine, accendini, sigarette, frette, orologi, orgogli, gorgoglii, golgota, calvari, cavalli, scommesse, sconfitte, confetti, cofanetti, sarcofagi, sacripanti, saltimbanchi, banchi, banche, bocche, becchi, buche, barche, borchie rubate, bici rubate, baci rubati, rossi rubino, verdi smeraldo, gialli oro, galli d'oro, osterie, abbuffate, buffonate.
ancora una volta è andata così, siam partiti da un certo luogo e non si sa bene dove siamo andati a finire.
mi faccio un caffè.

sabato 11 aprile 2009

Equi libri


io e piòtr ci si rincontra sempre per caso, qua o là, ed è bello così. l'altro giorno camminavo lungomare, un po' sperduto, senza meta né vicina né lontana. guardavo gente seduta sulla renella, seduta o in piedi con un pallone e un ragazzino, o col cane, seduta con un libro, con una persona accanto, con una persona tra le braccia, tra le labbra. pensavo a me dal di fuori, mi chiedevo se il mio passo dal di fuori sembri pesante così come lo sento io, mi chiedevo se da fuori sembro un sacco di sabbia, perché è così che a volte mi sento. e non è necessariamente una sensazione sgradevole, è perlopiù una sensazione neutra.
e nel bel mezzo di questa domanda me lo ritrovo di fronte, piòtr, in ciabatte da mare, infilato in un paio di calzoni né lunghi né corti, in una camicia ampia, di colore chiaro, chiarissimo, vicino al bianco. lo riconosco subito dall'andatura un po' danzante e da quel sorriso che è un equilibrio friabile, come di biscotto triangolare, un sorriso di baricentro, tra tre vertici, tre espressioni: 1. la so lunga; 2. sono un idiota completo; 3. sono felice. che poi, in fondo, sono tre espressioni abbastanza sinonime.
il sole è alto, illividisce tutto, anche piòtr da lontano sembra poco più che uno spaventapasseri, una sagoma, ma cammina, sta a favore di vento e cammina, e va. nella testa i pensieri miei fanno come fossero a casa loro, vanno avanti, evolvono, crescono, invecchiano, muoiono e rinascono, fuori da ogni tempo. e piòtr si avvicina, io mi avvicino a lui, ci avviciniamo. alza un braccio, anche lui mi riconosce quasi subito, anche se non so da cosa mi riconosca. e come un frutto improvvisamente maturo mi viene in testa una domanda: cosa mi rende riconoscibile?

piòtr: quanto tempo!
transfuga: quanto?
p: non tanto, in effetti..
t: vero. né poco né tanto.
p: vero?
t: vero

e allora faccio a lui questa domanda, questa domanda che m'è balenata in testa.

t: cosa mi rende riconoscibile, secondo te?

e mentre faccio questa domanda mi viene il sospetto che sia una domanda un po' cretina, e sicuramente forzata, una domanda matura -perché le cose che balenano così, dal nulla, spesso si stanno preparando da tempo a venir fuori- ma incastrata senza criterio in una conversazione già avviata, ancorché acerba.
e un istante dopo mi accorgo, appunto, che è una domanda che volevo fare a qualcuno da tanto, da sempre.

t: cosa mi rende riconoscibile?
p: il contorno. il sole è alto, il cielo livido, i colori non si distinguono, e non si distinguono bene nemmeno i tratti e le espressioni dei volti. ti si riconosce dal contorno.
t: dalla sagoma del corpo? della faccia?
p: non proprio. l'ultima volta avevi i capelli più lunghi, e forse faceva più freddo, o più caldo. dal contorno, ti si riconosce, dalla maniera che hai di spostare l'aria, di modificare i pensieri quando qualcuno ti si avvicina.
t: che pensieri avevi e che pensieri hai?
p: prima pensavo a questo (e fa un gesto col braccio lungo l'orizzonte bianco, e il palmo rivolto verso l'alto), ora penso improvvisamente ad un sacco di sabbia.
t: un sacco di sabbia?
p: un sacco di sabbia. ti ho riconosciuto da questo, dal pensiero che m'è balenato in testa all'improvviso: un sacco di sabbia. lo spostamento d'aria, la tua vicinanza, mi hanno fatto pensare a questo: un sacco di sabbia.
t: un sacco per dire tanto? o per dire un sacco, un sacco di quelli di tela, di quelli di patate o della spazzatura?
p: non lo so. non faccio distinzioni tra parole e cose, lo sai. non ne sono mai stato capace.
l: nemmeno io, almeno non sempre. e basta, però? non mi si riconosce da niente altro?
p: sì, forse da qualcos'altro. ma non è una tua peculiarità, non è un qualcosa che hai esclusivamente tu. è qualcosa che ciascuno a modo proprio ha.
t: di che si tratta?
p: si tratta del baricentro. le persone si riconoscono da questo, dal baricentro che hanno, dal punto in cui tende a riposare lo sguardo altrui, lo sguardo di chi le guarda. e spesso la bellezza, la simpatia, il carisma, il fascino, dipendono da dove hai il baricentro. gli idioti, i fubri e i felici e gli hanno il baricentro sulla bocca, una bocca a forma di triangolo, più grande se sono accesi, più piccola se sono spenti. i belli lo hanno più sotto, tra mento e collo. gli infelici lo hanno sul basso addome. tu lo hai poco più in alto. ma a volte se ne intravede un altro, in te, di baricentro. non si capisce bene dove. sui polsi, forse, o sul naso.
t: e i carismatici, gli intelligenti?
p: i carismatici e gli intelligenti hanno qualità equamente distribuite tra gli occhi e le mani, e spesso portano le mani in prossimità degli occhi. quando sono insicuri si tappano gli occhi con le mani, o si grattano la testa. quando sono sicuri di sé tracciano geometrie nel vuoto.
t: e i ricchi, i poveri?
p: i poveri sui piedi, i ricchi sul petto. i cattivi su un occhio solo. i buoni sulla nuca, gli stronzi sulla schiena, i simpatici sulle chiappe o sulle cosce.
t: i sovversivi invece? aspetta, lasciami indovinare. sulle spalle.
p: era facile, questa. i sovversivi sono una figura residuale. ce ne sono pochi, in giro. se non hai da fare andiamo a cercarne qualcuno. cerchiamo, insomma, qualcuno che abbia qualcosa da insegnarci.

e io e piòtr ci incamminiamo lungo il mare, e poi torniamo verso l'entroterra. calchiamo strade bianche di sole, parchi secchi, piazze deserte.
camminiamo in silenzio ma ciascuno di noi, ne sono certo, sta pensando a questo: è arrivata l'estate.