giovedì 14 ottobre 2010

Fine di un blog

non ho più niente da aggiungere.
anche laide époque è un blog finito.
ho voglia di inaugurare un'epoca nuova, decisamente meno laida ma, volendo, altrettanto piovosa.
ora sono qui.

domenica 3 ottobre 2010

Il fait bobo

non ho capito bene che giornata è oggi. bisognerebbe affacciarsi meglio. uscirò a breve.

sabato 25 settembre 2010

Ma déception amoureuse c'est moi

il contenuto del post precedente risale allo scorso anno.
mi riconosco in parte in quello che ho scritto. mi ci riconosco strutturalmente, ma poi le circostanze variano.
ora sono decisamente paratattico.

qualcuno mi ha consigliato di scrivere a me stesso quel che vorrei scrivere a te. ma scriversi addosso non dà la stessa soddisfazione. e guarda che stavolta non si tratta di insulti, anzi.
però è giusto. se pensi che alla fine la memoria è fatta apposta. apposta per dimenticare, intendo. e non è un paradosso, è qualcosa che ha un significato ben preciso, ma che ora non mi va di spiegare. ora e mai più. basta un po' di intelligenza per capire. e il mio lettore medio ne ha, d'intelligenza. altrimenti ci si stanca, a seguire un cane come me.

giovedì 23 settembre 2010

Seconda Edizione

ora, negli ultimi tempi ho recitato spesso una frase, un po' mucciniana ma non per questo priva di fascino, che fa più o meno così:"uno pensa alla vita come a qualcosa di là da venire, e invece la vita è adesso." il punto è che da giovani avvertiamo la vita come qualcosa di là da venire, perché per certi aspetti è così, perché la nostra pelle e i nostri pensieri inseguono davvero una forma ed una sostanza che non siamo ancora. e quando uno prende a pensare alla vita come a un qualcosa che esiste già, che è qui, bello o brutto che sia, allora vuol dire che non è più giovane, vuol dire che ha perlomeno iniziato a calcare il sentiero dell'età adulta.

cambiamo discorso. mi pesa ancora la fatica degli esami di una vita, di quelli che ho fatto ma soprattutto di quelli che non ho fatto, tanto per buttare là una banalità, una frase ad effetto.
però è vero, ci penso e mi dico: ma perché minchia, uno, poi, dovrebbe mai sottoporsi al giudizio degli altri? perché mai le questioni importanti della nostra esistenza devono essere scandite dall'esame e non magari da una notte di sonno, da una cotoletta impanata, da un tiro di sigaretta? o da un prelievo al bancomat? o da un caffé nel bicchiere di carta, bevuto camminando?

nell'arco sempre teso di una giornata tra le mura -e oltre- di questa città, non sai quante e quante volte mi viene in mente qualcosa da scrivere, qualcosa che mi dico: stasera piglio e lo scrivo, lo trascrivo. ma poi i pensieri si sommano, e scoprendosi incapaci di sommarsi come cristo comanda allora si moltiplicano -come cristo comandò a pani e pesci- diventando ben presto potenze gli uni degli altri (ché vuoi mettere il gusto di mangiare il pesce col pane e il pane col pesce, anziché o l'uno o l'altro), e allora ecco che un'idea in quattro e quattro otto (o, per meglio dire, in quattro alla quarta duecentocinquantasei) si trasforma in qualche splendido nulla, cioè a dire in un qualche numero talmente complicato che nessuno riesce a contarlo.

niente di nuovo, per chi conosce queste pagine immaginarie.
avanti dunque con la mia dose di niente, di nuovo. anziché dose stavo per dire diaria ma di fatto alla mia scelleratezza non è concesso neppure il beneficio della costanza, della quotidianità. e si sa che essere virtuosi nel vizio è diabolico, così come eccedere nella virtù. mentre a me -che sono cresciuto a pane, antipasto, primo, secondo, contorno, dolce, frutta, caffè, ammazzacaffè, acqua, vino, bevande, coperto e mancia- spetta un'angelica mediocrità.

tutto questo non è vero, perché invece mi si affaccia dentro un essere serio, disciplinato, prodigo di buoni propositi e di soluzioni concrete, rapide ed efficaci. un essere capace anche di aspettare e pazientare quand'è il caso. un essere capace di accontentarsi di pane e pane o di pesce e pesce.
e non mi è facile ammettere di essere io, quell'essere. di essere così, divenuto finalmente uno che sa quello che deve fare e soprattutto quello che vuol fare. divenuto uno che diviene.

uno che tutto sommato si alza, che tutto sommato lavora, studia, risolve, dialoga, indaga, scopre, reagisce, rimedia, o incassa. uno pane al pane e vino al vino, tanto per tornare agli ingredienti del sacro ricettario.

grida anecoiche medicano un mio bruciore di gola.
e scrivo male, mi sembro io a quindici anni. non che col tempo sia migliorato poi tanto, anzi. ma almeno ho capito, col tempo, che raramente l'urgenza sa mettere in scena un capolavoro.
e vabbè, scrivere anche di merda, se serve, pur di saziare l'interrogativo: davvero? davvero eravamo lì? davvero ero io? noi? tu? non ho creduto nemmeno per un istante di esserci.

una volta conoscevo parole migliori, e le mele avevano una buccia di colore diverso. mi scoppiavano le tasche, andavo al caffè e quando ne uscivo certe idee dovevo metterle in borsa, perché in testa non mi ci stavano. potevo tutto e non volevo niente.
stasera, invece, in camera mia c'è una luce un po' cruda, debole. non ho genio di ragazza profumata, sono incapace di scegliermi le tende e le candele, e tutto quel che mi circonda va sul grigio. con questo non voglio dire alcunché di triste. è che non ho miti da spalmare alle pareti e non ho musiche degne d'ascolto. non ho nessuno a cui pensare. stasera in camera mia non c'è che una persona, e sono io, e leggo, scrivo, per lo più sto a ciondolare, e il tempo mio fatica a starmi dietro.
una volta conoscevo parole migliori, e le mie mani andavano dritte al dunque, quando si trattava di scrivere. se mi rileggo ora non mi piaccio ma questo non vuol dire affatto che io sia migliorato.

è vero, è sempre vero che quando si fa una cosa nuova è così complicato farla che per forza ti viene brutta.
questa frase -che deve aver scritto picasso, da qualche parte- stava in epigrafe alla mia tesina di maturità. a chi mi esaminava, di quel libriccino non piacque nulla, e non c'è di che meravigliarsi, tutto sommato. era un lavoro abbastanza onesto, ma io non ero stato -negli anni della scuola- onesto abbastanza da poterlo sostenere. quell'epigrafe suonava come un'apologia, una excusatio non petita.

venerdì 17 settembre 2010

Minima Immoralia

quando un'epoca finisce mica te ne accorgi subito.

stasera spaghetti olio e peperoncino. non ho aglio né qualcosa che gli somigli.

un'epoca finisce sempre un po' prima e un po' dopo di quel che sembra. sì, un po' prima e un po' dopo al tempo stesso. è la simultaneità del divenire, diciamo così. sulla simultaneità del divenire ho fatto la mia tesi di laurea, più o meno.
ma son finiti i tempi in cui fare una tesi di laurea era qualcosa di cui vantarsi.

tempo fa parlavo con una collega di lavoro -del lavoro che presto lascerò e che la mia collega ha già lasciato- e mi faceva notare questo, mi faceva notare che io dico sempre che mi sono laureato in ritardo.

- in ritardo rispetto a cosa?, chiede lei
- in ritardo rispetto alla maggior parte delle persone, rispondo io
- e sei sicuro che quelle persone abbiano capito qualcosa di quello che è successo loro nel frattempo?
- non lo so, rispondo io, anzi, credo di no, rispondo, ma è una magra consolazione, di fronte al fatto che quelle persone inizieranno a fare il lavoro della loro vita con molti anni d'anticipo rispetto a me.
- e perché mai questa cosa dovrebbe essere un vantaggio?
- lo sai anche tu il perché, rispondo io.

ma la mia collega ha ragione a dubitare, e più tardi, in qualche modo, vi spiego perché.

torniamo alla simultaneità del divenire. ho già parlato di questo, ma non ha importanza. mi piace riparlarne, tanto nel migliore dei casi sarò io la sola persona che leggerà questo post.

c'è un'indovinello/barzelletta sui carabinieri che dice che i carabinieri vanno sempre in giro in coppia perché uno sa leggere e l'altro sa scrivere. tralasciando il fascino del paradosso, c'è da dire che chi scrive necessariamente legge ciò che scrive, ma non è altrettanto evidente che chi legge scriva nell'atto di leggere.

nel frattempo ho finito di mangiare i miei spaghetti olio e peperoncino, e mi dico che potevo buttarne mezz'etto in più senza fare un soldo di danno. rimedierò -anzi, ho già rimediato- con un faux filet al sangue.

dicevo, la mia collega aveva ragione, perché fare lo stesso lavoro per tutta la vita dev'essere una noia mortale, quindi è meglio iniziare il più tardi possibile.

un'epoca è finita quando riascolti la colonna sonora e ti accorgi del vuoto in cui risuona.

venerdì 27 agosto 2010

L'atto II nell'epoca dell'irriproducibilità

negli ultimi giorni riaffiorano alla mia coscienza ricordi che non ricordavo.
ciascuno di essi si sostituisce al precendente, rigettandolo nuovamente nell'oblio, forse -chissà- per sempre. cosicché ora ho ben presente l'ultimo dei ricordi affiorati, e so che è andato a sostituirne uno che non ricordo già più. se il concetto non fosse chiaro.
chi mi conosce sa che non parlerò di eventi, ma di scatole vuote, anche stasera. basti sapere che quei ricordi vengono a ricordarmi cose che sono stato e che, in certi casi, non ho più voglia di essere. motivo di più per non svelarne a terzi il contentuto, che pure non è, o almeno non sarebbe, da censurare.
una collega di lavoro più anziana di me, oggi mi ha detto: questa è l'età.
riferendosi alla mia, di età.
non so se sia questa l'età, e se anche l'età fosse questa, la domanda è: l'età per cosa?
ma quella domanda alla mia collega non l'ho fatta, la risposta sarebbe stata ridondante, avrebbe creato un imbarazzo, avrebbe svuotato la conversazione, perché il bello era proprio lì, in quel non detto.
io, da parte mia, sempre oggi -significativamente non ricordo se prima o dopo- ho detto ad un'altra collega, mia coetanea, che sarebbe bello avere vent'anni. anzi: ho detto solo: eh, avere vent'anni.
ma so perfettamente che non è vero. quando penso a quanto sarebbe bello avere vent'anni, mi immagino la mostruosa combinazione dei miei vent'anni con la testa che ho adesso. il vantaggio di avere vent'anni con una testa da trentenne è persino ovvio: l'età legittimerebbe istanze, possibilità e diritti che la solidità e la concretezza di un cervello più maturo saprebbero trasformare in realtà ed effetti. forse.
comunque, risolvere il problema fingendosi anagraficamente più giovani significherebbe togliersi la sete col prosciutto.
ovvero staremmo tentando di debellare un bug identitario installando un altro bug identitario. e poi, per fare le cose come si deve, bisognerebbe falsificare il documento.

cambiando discorso, senza cambiarlo per davvero, tra ieri e oggi mi si è chiarita un'idea. anche grazie alle parole di un amico.

buonanotte ai suonatori.

lunedì 23 agosto 2010

L'atto sessuale nell'epoca della sua riproducibilità tecnica

ci sono persone suscettibili di uscire dal proprio corpo per rientrarci subito dopo in qualità di ospiti. è una specie di metemsomatosi allo specchio, che qualcuno giustamente definisce narcisismo. ma non sia mai che in questa sede ci si occupi di psicanalisi.
qui è da sempre l'angolo della sconfessione, delle excusationes non petitae e soprattutto dei tarallucci, del pane, del vino, del salame di cesare e di quello di dio. e se "cesare" è verosimilmente il nome di un pizzicagnolo, "dio" fu quello di una rockstar ma starebbe bene anche addosso ad un pornodivo.
torniamo a noi, per modo di dire. qui è il bingo dell'autoespropriazione, l'ultimo baluardo di un linguaggio delle tre carte che da millenni oramai sta passando di moda. e oggi qui c'è in atto un processo senza giudici e senza avvocati, con l'imputato che giace in nessun posto in posizione fetale.
il lupo stregoniere, il civettuolo delle notti di mezzaluna, il coniglio mannaro, ladro di minuscole ore vacue, sembrava aver compiuto un altro dei suoi colpi nefasti, salvo che (anzi: proprio perché) sul più bello, quando già stringeva il sacco tra le fauci e aguzzava le iridi gialle nel buio per rinfilare il passo verso il rifugio, l'hanno rincorso i metronotte e gli hanno sparato addosso colpi di sale, cagionandogli certe piaghe così dolorose che a metterci il dito dentro non fa alcuna differenza. e ora si lecca le ferite con gran godimento autocannibalistico, e con una palla da bowling appesa alla perla nera che per grazia divina si ritrova al posto del cuore.
poiché, una volta rientrato al nascondiglio, alla tana, apre il sacco e ci trova dentro forse ceci, forse soldi di cioccolato, residuo stantio di una vecchissima calza della befana, o forse niente di niente.

da wikipedia:

Una particolare forma di narcisismo è quella legata alle nuove tecnologie, ed al web, viene definita narcisismo digitale simile per certi aspetti all'egosurfing, che si caratterizzerebbe per uno smoderato culto della personalità, dell'apparire e di esibirsi sul web con i propri scritti, foto, video e messaggi; complici le applicazioni web 2.0 che consentono a qualsiasi utente di creare contenuti autoprodotti con estrema facilità. Per alcuni autori, come Andrew Keen (nel suo libro The Cult of the Amateur) il web partecipativo fatto di blog, video-audio-foto sharing (autoprodotti), twitter, mashupfacilita la creazione di prodotti autoreferenziali, autocitazioni che vanno a gratificare appunto il narcisismo digitale. Il narcisismo individuale si connette spesso a quello culturale, Jean Baudrillard, così in una società consumata l'individuo tende a fuggire verso una consumazione della propria immagine, con forme di negazione dell'alterità affogondola in compiacimenti autoreferenziali. Questa definizione mi sembra affine con quella di Postmoderno, dove come Baudrillard, occorre che questa imago sia venduta per essere contentuto a rischio di patologie, mentre la scrittura narcisistica, può essere "scoperta" e quindi può essere recuperata come riparazione di ferite, di danni subiti, di oltraggi vissuti nel mondo reale dalle persone - dona attraverso questa piccola esposizione portatile, un'esperienza psicologica affine ad un prodotto diaristico in cui il soggetto può ritrattare, superare, riparare i traumi senza che questo debba divenire un prodotto feticistico: restituisce la ferita narcisistica al quadro della rielaborazione propria e creativa.

martedì 17 agosto 2010

Nel buco del culo della notte

da anni non lavoravo di notte. m'ero dimenticato che luce c'è, quanto è salata l'aria, e tutte quelle cose lì, non le ricordavo, non ricordavo che fossero così. sono cose che ho descritto altrove e che non ho voglia di ripetere.
le dita pesano e c'è poco da fare, qui. e forse c'è anche poco da dire.
mi sono rintanato in un angolo in cui nessuno verrà a disturbarmi. forse mi sono nascosto fin troppo bene, rischio di non ritrovarmi nemmeno io. a dire il vero mi piacerebbe pure, che mi stanasse qualcuno. perché mai ci si nasconde, allora? non è forse perché qualcuno ci stani, che ci nascondiamo?
a meno che il nascondersi non sia un modo per temporeggiare. prima o poi chi ci cerca si stancherà di cercarci, abbandonerà il campo, e allora potremo uscire allo scoperto. ma non sarà pur sempre per andarci a nascondere altrove, che usciremo?
se invece l'obiettivo è essere trovati, il fatto che chi ci cercava smetta di cercarci potrebbe rappresentare un problema. perché se stavamo giocando a nasconderci e nessuno ci cerca più, il gioco finisce. e ci ritroviamo nascosti come degli imbecilli, e magari il tempo passa e facciamo la fine dei soldati giapponesi sui monti di Mindanao, ignari per decenni che la guerra fosse finita.

e chi vuoi mai che mi trovi domattina alle 7, poi, quando uscirò di qui e il sole non sarà spuntato ancora.
chi vuoi che mi trovi in metropolitana. ogni viaggiatore sarà qualcuno che si nasconde, a quell'ora. qualcuno che si nasconde in un vagone di metropolitana.
o qualcuno che va a nascondersi in un qualche angolo d'ufficio, come sto facendo io stasera, stanotte.
e quando sarò giunto a casa andrò a nascondermi al terzo piano della magione, nella stanza, dietro una finestra, sotto una coperta. in un sonno profondo, mi nasconderò. un sonno del peso e del sapore di una gigantesca lacrima amniotica.
sarò un feto che sta bene lì, che non vuol nascere, almeno per il tempo di un sogno, magari due sogni, non di più. perché poi si nasce, c'è poco da fare.
e, come disse il tale, quando sei nato non puoi più nasconderti. vabbè, non avrei mai voluto dover fare questa citazione.
in breve, siamo tutti qui. chi ci cerca ci trova, perché chi cerca trova. è un detto che vale per le cose quanto per le persone.
nel mentre sono stato trovato da una beneficiaria, che dalla spagna chiamava perché tirassi fuori dalla merda lei e la sua famiglia, accidentati in macchina in un buco di culo di mondo, non lontano da Cordoba.

venerdì 30 luglio 2010

dice che sei zen

dev'essere partito. Nico, dico.
non lo vedo più da giorni. in effetti aveva detto che sarebbe partito verso la fine del mese. ci siamo.
il mio coinquilino è partito e io non mi sono accorto di niente. è andato via senza salutare, tutt'affatto. non devo essergli restato granché nel cuore, io, come persona. c'è di che riflettere, e magari anche lui lo farà, da parte sua.
sarà partito nel silenzio. avrà vuotato la sua stanza coi tappi di gomma infilati nelle orecchie, nell'aria salata del mattino. io non c'ero, ero a Roma, probabilmente.
a Roma, a dormire per l'ultima volta nella stanza rossa, nella casa gialla. la casa e la stanza di dieci anni di vita, tondi tondi. la volta scorsa, la penultima notte, qualche mese fa, fu più triste.
ora il contesto è già disanimato, quelle mura non fanno breccia.

il viaggio mi ha tenuto distante dal disordine della stanza di Sparigi. bisogna che faccia qualcosa per arginarlo. l'ho detto, la stanza è uno specchio fedele della testa di chi la abita, è persino ovvio.
nelle mie stanze non ci sono mai quadri o poster che abbia appeso io. non ci sono mai tantissimi libri in vista. ci sono sempre strumenti musicali sparsi qua e là.
c'è sempre un qualche oggetto scomodo, un letto che scricchiola, un angolo di muro scrostato.
la confezione di un qualcosa da mangiare, o una tazza ormai vuota.
una lampadina che non funziona, o che diffonde una luce troppo cruda.

vado a far smussare le chiavi dal fabbro.

mercoledì 7 luglio 2010

wip


nel vivo della notte, che lo si voglia o no, la gravità delle ore e degli anni si fa sentire un po' più cinicamente del solito, e là non bisogna cascare nella trappola, non bisogna mettersi a cercare una soluzione o a tirare una conclusione. una volta che si è imparato questo, la vita intera si fa un tantino più semplice.
ma una cosa è certa: se è di notte che si può scrivere, ed è di giorno che perlopiù si può lavorare; e se è scrivendo che si pensa ed è lavorando che si smette in qualche modo di pensare, allora è quasi inevitabile che i pensieri sul tempo e sullo spazio -i miei, almeno- siano abitualmente un po' macchinosi e spiroidi.

di qui, l'urgenza di trovare un lavoro diurno fatto di pensieri e una quantità di occupazioni serali e notturne votate al depensamento.

l'affare è complicatissimo, perché per lavorare coi pensieri ci vuole coraggio, e per depensare nel tempo libero ce ne vuole anche di più. e poi è complicato anche perché il lavoro è una tenaglia, è una droga prepotentemente additiva. ma qui bisogna fare attenzione, perché in realtà l'aspetto inquietante non risiede tanto nel lavoro in sé, quanto nella necessità di guadagnarsi o comunque ottenere in qualche maniera i mezzi necessari a sopravvivere.

inoltre, per poter lavorare coi pensieri, oltre al coraggio ci vuole la certezza della sopravvivenza. la chiave -che tecnicamente non so quale sia- va innestata lì, in uno stoico punto di equilibrio tra certezza e coraggio; e mica è facile, perché la certezza svigorisce silenziosamente il coraggio, che logicamente è legato a doppio filo con l'incertezza.

del resto l'incertezza può anche scoraggiare, ma questo è decisamente un altro paio di maniche, che val bene non indossare, almeno per il momento.

forse l'errore da evitare è porsi da sé in una condizione di incertezza per alimentare il proprio coraggio. ed è un errore perché l'incertezza vige sempre e comunque, che la si voglia o no.

il primo passo verso la soluzione del dilemma coincide con l'impegno a rispondere alla seguente domanda:
sono certo del mio coraggio?

nessuno vi ha chiesto di arrivare fin qui.

venerdì 2 luglio 2010

Sei personaggi in cerca di aurore



La natura mi ha svegliato alle 9.
Giorni fa una collega mi diceva proprio questo, mi diceva che non sopporta che sia una sveglia a svegliarla, e che vorrebbe potersi svegliare sempre e soltanto quand'è il corpo che glielo chiede.
Sono sceso al piano di sotto e mi sono affacciato in terrazza, c'era un sole talmente netto che ho pensato subito a Martin, quello con la voce de uma nota so, a Martin e alla prima volta che ci siamo incontrati, proprio su quella terrazza. Di lì, compreso Martin e i miei due coinquilini attuali che a breve se ne andranno, sono stati 6 i personaggi che hanno popolato la Magione dei Lillà in questi dodici mesi. Sei personaggi in cerca di qualcosa in questa città ma tutti e sei, guarda caso, risucchiati presto o tardi da altre vite, altre urgenze, altre nostalgie, altre velleità.
Da ieri, è un anno che vivo in questa casa storta. Stamattina mi sono svegliato alle 9, mi ha svegliato la natura, ma senza rumore, così, in modo, diciamo, naturale.
Mi sono affacciato giù in terrazza e il sole era netto. Spunta Samuel, che non rientra nella conta dei coinquilini, è una specie di guest star, spunta Samuel e mi dice che ho l'air soucieux, che ho l'aria preoccupata; gli dico che devo solo andare al gabinetto, gli indico con la mano la porta del mio, che è occupato da Nico, Samuel mi invita a seguirlo al piano di sotto, a pisciare nel suo bagno, lo seguo, piscio e torno indietro, con un sorriso soddisfatto stampato in faccia e una mano levata genre giovannipaolosecondo, mentre lui vedendomi sfilare mi fa una risata delle sue, breve, abissale.
I personaggi, quelli principali e le guest star, appaiono e scompaiono oltre i bordi (stipiti, mura, scale, porte) delle inquadrature di questa casa in modi e tempi che spesso fanno pensare ad una sitcom, di cui io, tanto per tornare all'abusato tema Truman Show, io -dicevo- sono l'ignaro eppure divertito protagonista. Lascio Samuel su un piano, ritrovo Nico sull'altro, che riemerge dal bagno portandosene dietro i vapori, fa la sua battuta spesso secca, di un umorismo un po' aspro, esotico, manda giù un succo d'arancia, si rinsenrra di colpo nel suo studio, e allora spunta fuori Joanna, mi fa un gesto primordiale con la mano farfugliando una frase in franco-polacco, scoppio a ridere, lei fingendosi offesa svanisce dietro la porta del bagno.
Ignaro un paio di ciufoli, perché invece a volte le geometrie degli eventi sono talmente ben oleate da farti dire: è vero, è tutto vero, è una storia già scritta, ma faccio finta di non crederci: e l'oggetto della miscredenza non è la storia ma la matrice medesima della finzione.
Un anno in questa casa, e pare ieri, pare ieri davvero, facevamo una cena per inaugurare il mio nuovo indirizzo, col tramonto che sa stare a tavola composto insieme a noi, e che verso il dessert (che non mangiammo) dà il meglio di sé. Qualcuno, tra gli invitati, aveva la faccia di chi sarebbe andato via presto, e a giudicare dalle foto si direbbe che lo sapeva.

Andare via: che male c'è? Presto, tardi, appena in tempo o facendo le cose con calma. Però io resto qua, voglio godermi lo spettacolo banale di nuove sitcom e nuovi tramonti, con tanto di risate preregistrate tra una battuta e l'altra. E quando, una sera, di tramonti ne avrò avuti abbastanza, allora, come gli altri sei personaggi, mi lascerò la Magione alle spalle, e andrò in cerca di aurore.

sabato 19 giugno 2010

Un an

Tutto preso com'ero dalla frenesia del nuovo lavoro,
ho dimenticato di celebrare in questa sede il primo anniversario del mio atterraggio a Sparigi.
Ho dimenticato di celebrarlo in qualsiasi sede. È buon segno, vuol dire che penso meno alla confezione e più al prodotto, diciamo così. Alla fin fine cos'è mai un anno?

giovedì 3 giugno 2010

Laid. ép.

e poi mi sono detto: ma perché non scrivere una cosetta nuova? è un po' che non verbalizzo come si deve. e di fenomeni, ancorché interiori, ce ne son stati, a ben guardare, negli ultimi tempi.
il tema della serata è "vanità e frustrazione".
da quattro giorni sono in formazione presso un'azienda che si occupa di escamotage, escatologie, scatologie, scatole, scotomata, auto, moto, scotti, pomate, scatti, patate scotte, biscotti. la verità è che non mi è chiaro di cosa si occupi l'azienda, lo ammetto. forse per questo brancolo ancora nel bruolo. ma è il termine stesso, azienda, che mi dà fastidio. in qualsiasi lingua. quando c'è di mezzo un'azienda, davanti a tutto c'è un colore, un font, un logo, un materiale e persino un odore. se ci sono dei volti sono sempre o quasi sempre facce di merda.
mi guardo allo specchio e vedo la tendina della doccia, le piastrelle del cesso, e, se ravvicino il fuoco, le impronte fossili di gocce d'acqua, o tracce secche di dentifricio misto a saliva. poco dietro ci sono io, perché far finta di niente?, con i capelli già un poco lunghi sul giro dell'orecchio. è un fastidio millimetrico, se si trattasse di centimetri sarebbe accettabile. la mia non è però una faccia di merda. sa esserlo, se occorre, ma non è a questo che aspira.
c'è una frase che mi piace dire: "ciascuno ha l'intelligenza che si merita".
è un paradosso dei miei, forse, ma ha una sua logica, o almeno: potrei argomentarlo mediante un ampio ventaglio di dimostrazioni empiriche, ma dovrei citare persone e situazioni, e non è il momento. di cosa è il momento?
c'è un tempo per piangere i limiti del proprio processore, e un tempo per inzaccherarsi di giuggiole il bavero. un tempo per andare a pesca e un tempo per la pasta al forno a colazione. c'è un tempo per le lucciole e un tempo per le sigarette. un tempo per le sigarette e un tempo per il tabacco da girare. c'è un tempo per fare cazzate di proposito e un tempo per fare cazzate per sbaglio, un tempo per avere culo e un tempo per fare le cose in un certo modo.
domani pomeriggio archivierò una settimana dura e antipatica.

martedì 25 maggio 2010

Café Absum

da mesi riflettevo sull'ipotesi di far confluire i materiali del vecchio e del nuovo blog in un romanzo. per il romanzo non sono pronto, ma intanto è venuto fuori il soggetto per un film di venti minuti.

giovedì 15 aprile 2010

Peccati originali

chi non ha mai creduto in dio, nemmeno per un minuto
scagli la prima pietra
chi non ha mai fatto cadere un rotolo di carta igienica nella tazza del cesso
scagli la prima pietra
chi non ha mai mangiato carne e pesce nello stesso piatto
scagli la prima pietra
chi non ha mai scagliato la prima pietra
scagli la prima pietra
chi non ha mai scorreggiato in metropolitana
scagli la prima pietra
chi non ha mai insultato uno sconosciuto
scagli la prima pietra
chi non ha mai dormito quattordici ore di fila
scagli la prima pietra
chi non ha mai caricato la moka senz'acqua
scagli la prima pietra
chi non ha mai danneggiato una merce prima di comprarla
scagli la prima pietra
chi non ha mai parlato senza pensare
scagli la prima pietra
chi non ha mai pensato senza parlare
scagli la prima pietra
chi non s'è mai sentito schizzare l'acqua del water sulle chiappe andando di corpo
scagli la prima pietra
chi non ha niente da aggiungere
scagli la prima pietra

Stanze 3

innumerevoli volte ho parlato di questa stanza, la stanza più in alto, la mia, qui nella magione dei lillà. forse però non ne ho mai elogiato a sufficienza i pregi.
magari mi lascio condizionare dal fatto che proprio oggi, cioè ieri, ho firmato un contratto che mi lega -diciamo così- alla stanza per nove mesi ancora. è un buon motivo per amarla.
oggetivamente la stanza ha tante qualità: è spaziosa, ha un aspetto accogliente (quando il mio disordine non la trasforma in un angolo d'abisso), ha il soffitto ad angolo, come si dice, insomma è una specie di mansarda ma il vertice del tetto/soffitto è un almeno ad un metro e mezzo dalla mia testa quando sono in piedi. c'è un letto a due piazze, c'è un divano, c'è un guardaroba -fin troppo grande- che all'uopo va a sparire dietro un trittico di porte scorrevoli. c'è un armadio dove tengo solo le mutande e i calzini. c'è uno scrittoio. c'è una minuscola libreria. ci sono altri mobili che potrei francamente buttare dalla finestra. c'è un tavolinetto quadrato, verde.
ci sono, insomma, un sacco di cose; immaginatele sparse un po' in giro, più o meno geometricamente organizzate tra loro.
i difetti? è una stanza fredda d'inverno. se sia calda d'estate non so dirlo ancora, quando ho traslocato qua su -a metà luglio dello scorso anno- non faceva poi tanto caldo, a sparigi e dintorni.
e poi ci sono gli spifferi. e poi la stanza -e la casa tutta- è pericolosamente pendente: lo dissi una volta: è una piramide di gizah, una torre di pizah, questa magione. qualunque mente sublunare -direbbe il tale- mettendovi piede si accorgerebbe del suolo inclinato.
ma al di là di tutto, e qui viene il punto, al di là di tutto, dicevo, il pregio maggiore di questa stanza è un qualcosa di invisibile. è il fatto che ci si arriva un po' misteriosamente, tramite un nodo di scalette storte, arrancando. è il fatto di sentirsi davvero altrove, quando si è qui.
lei è una stanza che cancella il mondo di fuori.
è una stanza dove sei contento di stare perché sai che gli altri, nella casa, non hanno una stanza così, nascosta, appartata, un po' misteriosa, un po' così.

domenica 28 febbraio 2010

Grandevento

stanotte la tempesta ha tirato giù un vetro, in cucina. il vento correva a duecento all'ora, la magione dei lillà fischiava forte sotto i suoi colpi, le mura erano fogli di cartapesta. ad un certo momento ho detto a juicy: si direbbe che ci siano degli spifferi, l'aria si muove, qui. 
e invece era il vento, che aveva aperto la finestra, e gonfiava la tenda, la stanza sembrava un veliero, senza saperlo viaggiavamo lontano.
juicy mi ha spiegato che ci sono due tipi di sublime, quello statico e quello dinamico. e nel farlo ha citato un qualche filosofo, probabilmente tedesco, di cui non ricordo il nome. ha aggiunto poi che quella tempesta, quel gigantesco cantalupo, era del tipo dinamico. e ha concluso, se non sbaglio, che un qualcosa è sublime quando puoi ammirarne la potenza distruttiva senza subirla, o qualcosa del genere.

domenica 31 gennaio 2010

QdP


oggi è l'ultimo giorno di gennaio e non pubblicavo un post da prima di natale. da febbraio del 2009 posto almeno una volta al mese, e non ho intenzione di mancare all'appuntamento in questo primo mese dell'anno e dodicesimo mese del blog.

quand'ero piccolo non sopportavo le questioni di principio. se "per una questione di principio" mi si impediva di fare qualcosa, mi incazzavo come una iena, mi scoppiava la testa. 
sono certo che, sulla "questione di principio", i miei educatori ci abbiano talora marciato, come dire, non credo che le mie richieste andassero così spesso a cozzare con il loro senso morale, e di sicuro quelle questioni costituivano volentieri la confezione idonea a mascherare le loro insicurezze, le loro perplessità, la loro esigenza di prendere tempo per riflettere meglio sull'opportunità o meno di accontentarmi. ci può stare, tutto sommato, ma mi incazzavo perché in ogni modo io, di mio, non avevo principi, o non riconoscevo i miei principi come tali.
è buffo, perché se la mettiamo così parrebbe che il principio -che per definizione viene prima del resto- sia in realtà consequenziale al sopravvento della ragione sull'emotività, dell'età adulta sulla giovinezza, del dovere sul volere (senza entrare nel merito della volontà, che secondo me è il punto di equilibrio tra questi due ultimi).
oggidì, che sono adulto o qualcosa del genere, sono felice di poter erigere in prima persona qualche sana e salda "questione di principio" di fronte agli assalti mèrdici del caso e, soprattutto, di fronte alle altrui questioni di principio.
eppure mi piacerebbe, all'occorrenza, saper rinunciare al principio così inteso, e tornare emotivamente al principio della mia formazione, chiamiamola così, per riprendermi il diritto di piangere e battere i piedi di fronte alle ingiustizie e al dispiacere, ma anche per semplice stizza, per la rabbia di aver perso o di esserci cascato, per paura o per la scampata tragedia.
e insomma questo post, che parla di emozioni perdute, è un post pubblicato esclusivamente per una questione di principio.