
giovedì 17 dicembre 2009
Bianco Natal?

mercoledì 16 dicembre 2009
Mal più
martedì 1 dicembre 2009
La fretta è la virtù dei fratti
mercoledì 18 novembre 2009
Versi quel che versi

ed ho sorriso con un inchino
ma avevo il cuore
a fazzoletto
stretto nel pugno di un bambino
col raffreddore
...
(a maurizio guerrucci)
mio caro amico mio, non si sa come
e dov’eri mai la seconda volta
quando al citofono, sì, c’era il nome
però la rosa l’avevano tolta
grazie per quel panino col salame
per quella birra calda, per tua moglie
per le racchette, i giochi col pallone
per la canzone
...
ho fame, ed è notte, si dorme
ho sonno ed è ora di andare
giornata distorta, con roma che è morta
valigie da fare, disfare
ti prego non dire pazienza
non dire lavoro, lavoro
il tempo che ingrassa, la luce che spezza
le ombre di gatti nel foro
ma passano i giorni più tristi
e arrivano canti di merlo
tra gli alberi fissi, le foglie ed i cesti
di pane del forno (ad averlo)
è già mezzogiorno, si mangia
è già mezzanotte, si spia
attorno alla chiave, la luce che filtra
e lui che con lei... mammamia!
ho fame ed è giorno, si mangia
ho sonno ed è tempo, si muore
giornata perfetta, con roma che aspetta
l'amore
lunedì 16 novembre 2009
De rerum satura
oppure le parole le cerco in bagno, il solo posto dove posso togliermi lo sfizio di sfanculare uno stronzo senza tanti complimenti, dove posso leggere tutta d'un fiato l'etichetta di una confezione di carta igienica senza vergognarmene (magari nell'atto stesso di sfanculare uno stronzo, e vogliate perdonarmi se insisto con questa volgarità, che a dispetto delle apparenze non è affatto gratuita, ovvero mi costa assai, perché non amo essere considerato una persona volgare, non nel senso volgare del termine; e nemmeno amo indurvi a disegnare con esattezza nelle vostre menti la mia solitudine escretoria; però ogni tanto è doveroso dire le cose come stanno, non sia mai che ci dimentichiamo il fatto di essere umani), dove posso guardarmi allo specchio e fare le facce, pettinarmi da idiota, mettermi gli occhiali rotti e sganciare un sorriso da locandina elettorale -con una naturalezza che nella vita sociale non mi riesce per via della mia dentantura irregolare- e misurarmi il girovita con il filo interdentale, e via discorrendo.
bisognerebbe avere i coglioni di scrivere come si parla, come si mangia, invece di stare sempre lì a voler provocare lo strabuzzo altrui. invidio chi non si sforza di piacere, chi salta a pie' pari i problemi di forma e senza fiatare dà un verso alle proprie sostanze, proprio come si fa coi propri rifiuti organici, tanto per tornare -con toni stavolta accettabili, nevvero?- su un campo semantico a me caro.
ma, vedete, che speranza ho io, se scrivo "proprio" tre volte nel giro di otto parole? se lo facessi apposta allora sarei un poeta, evviva il poeta!, ma io sono sgraziato di natura, sono perennemente distratto dalle forme secche, sinuose o panciute dei caratteri che batto, non sono poeta, non sono nemmeno prota, e ogni mio sforzo è volto a dispiacere, a non farmi capire da nessuno e per nessuna ragione al mondo.
se non ci riesco -il che è molto probabile-, se ancora qualcosa vi arriva, ô miei sparuti fedeli e grati amabili seguaci inesistenti, allora sì che ho perso tutto, ho fallito fino in fondo, perché non ho ottenuto quello che volevo, quello per cui mi sforzavo. e questo fallimento è cibo per la mia inedia.
cibo per la mia inedia: trovatemi qualcuno che sia capace di simili spirali retoriche.
oppure le parole le cerco in camera, sul disfare del giorno, insieme a te che giustamente non conosci la parte e non puoi suggerirmele, se anche lo volessi.
giovedì 22 ottobre 2009
Si sta come d'estate/sugli alberi la frutta
martedì 20 ottobre 2009
Untitled
martedì 22 settembre 2009
Nuxi budra
sabato 5 settembre 2009
lunedì 24 agosto 2009
Tempi Miti

domenica 16 agosto 2009
Atomia
« Sì », rispose Momo.
« E pensi di fermarti qui? »
« Sì, magari! »
« Ma non ti aspettano da qualche parte? »
« No. »
« Voglio dire, non devi tornare a casa? »
« Io qui sono a casa », assicurò prontamente Momo.
« Da dove vieni, bambina? »
Momo fece con la mano un gesto vago indicando un punto qualsiasi, comunque distante.
« Chi sono i tuoi genitori? » continuò a domandare l’uomo.
La bimbetta guardò perplessa lui e gli altri e fece un’alzatina di spalle. Quelli del gruppetto si scambiarono un’occhiata e sospirarono.
« Non aver paura, non vogliamo scacciarti », continuò l’uomo, « vogliamo aiutarti. »
Momo annuì, zitta e non del tutto convinta.
« Hai detto che ti chiami Momo, vero? »
« Sì. »
« È un bel nome, ma è la prima volta che lo sento. Chi te lo ha dato? »
« Io », disse Momo.
« Da te ti sei chiamata così? »
« Sì. »
« Quando sei nata? »
Momo ci pensò un po’ su e infine disse: « Se mi ricordo bene, ci sono sempre stata »
sabato 15 agosto 2009
Interkenzo
martedì 4 agosto 2009
La colpa
domenica 2 agosto 2009
Ipse dixit
martedì 21 luglio 2009
Est eSt esT

prima che la sera tardi, prima che la notte fonda, bisognerà che il lettore medio capisca il congiuntivo.
giovedì 16 luglio 2009
Scale

la voce di martin oltremura suona una specie di messa, tutta di una nota, di quelle solo parlate, che ti verrebbe da saltar fuori dalla stanza per dire, di tanto in tanto: ora pro nobis.
mercoledì 17 giugno 2009
venerdì 12 giugno 2009
You have to be great

chiamare per se stessi un'ambulanza è un'esperienza che va fatta, prima o dopo, nella vita.
lunedì 8 giugno 2009
Sim Camille

psicotico-ti
psicotico-tà
mi si sgrana di dosso la pelle, un bicchiere di cristo, frastorna, vetro molle, è l'estate che annegra.
eccola, è passata un'automobile degli anni ottanta, settanta, nemmeno:
Simca Mille
sfrecciava, coi sedili di quelli neri neri, che magari era pelle, e che dolori coi calzoni corti, e che nausea, una specie di sugo di carne, l'aria, in quei pomeriggi là, tra stecchini colorati di cotone per le orecchie, dei quali
-mi si spieghi come-
la rena era zeppa. come pietre preziose.
ero piccolo, io, ma già tutto formato, come ora, uguale.
tutto mi era già come sarebbe stato, senza ombra, senza errore.
e non esistono le cicatrici, non è il coltello.
ma c'era in mezzo anche la felicità, che è come quando mi dicevano
"siamo quasi arrivati"
e il sedile era freddo e io contavo fino a Mille. e io non arrivavo a Mille, e noi non arrivavamo mai.
Simca Mille.
mercoledì 3 giugno 2009
E-stanze

ma che peccato che non siano in cinquecento, in mille, in millecinquecento a leggere le mie storie. che peccato non essere Collodi o Dante, Ovidio o Steinbeck, Kafka, Checov, Li Po, Chaucer, Esopo, Gadda, Joyce, chiunque, chiunque abbia per sé una pagina, che dico, mezza pagina, mezza fottuta pagina in una qualsiasi antologia della letteratura del cazzo.
martedì 2 giugno 2009
Ai tiùns
domenica 31 maggio 2009
Nuovo post

non resta che scrivere un nuovo post. occorre che affondi il bisogno di scippare il senno agli dei.
giovedì 28 maggio 2009
Il mio ragno per un cavallo
martedì 26 maggio 2009
Articoli
quest'inizio testimonia del fatto -e nient'altro- che preferisco giocare con le parole piuttosto che essere serio con le cose. non è detto che una cosa escluda l'altra, ma è detto senz'ombra che l'altra non esclude l'una.
e perché mai adesso questo nodo, questo laccio emostatico? perché? questo mezzo bisogno di tornare al regno della preterintenzione, della colpa, del piove? è proprio che non c'è da scherzare.
con le cose c'è da essere seri, anche se si scherza con le parole.
non bisogna dimenticare l'inviso, bisogna tenerlo da conto, mostrarlo a se stessi quando serve.
il concetto è molto semplice, sebbene possa risultare incomprensibile ai più: si può scegliere se calcare il dolore innecessario oppure cavalcare la più macchinosa delle felicità. è difficile sottrarsi al desiderio del vacuo. dover riconoscere i confini dello spazio dà la nausea, impastarsi col nero è una fine comoda. ma se la fine arriva prima della fine, allora è la fine davvero.
quindi c'è l'urgenza di un inizio, di una sublime fiorescenza di inizi lontano dai versi petulanti, dalle fluttuazioni in orbita,
dagli evitamenti e dai forsemegliocosì. non mi interessa ascoltare. posso fingere, se va bene a voi.
in fondo, a ben guardare, è tutto chiaro, anche se non ci arrivano i raggi del sole. nel fondo, intendo.
lunedì 25 maggio 2009
Marmo r.t.o.

come una molletta per topi, il sospetto di non poter smettere di scrivere mi morde il tallone vanificando ogni mio tentativo di fuga.
stamane ho aperto gli occhi ed ero sveglio. e non è una cosa normale, non è affatto ovvio. è questo il genere di cose che mi fanno correre al riparo -ahi, la morsa- mi impongono di scrollare via qualche parola dalle dita, con le cattive, col ghigno, con occhi gialli su fondo nero.
la città era una centrifuga impazzita, complice un accompagnatore dotato di uno spiccato senso dell'umorismo (ma non del limite). il mercato erano tre tende in croce, e poi il deserto, nessuno, niente.
andiamo avanti, anche se sembra idiota, avanti a scrivere.
ma io non ho più niente da dire!
scrivi!
ma...
basta, ho detto scrivi, va' avanti, scrivi.
scrivo.
ma ogni parola pesa, il mio foglio è di marmo, lo scalpello è piombo, ogni lettera è spasmo, è sudore.
niente ma.
e non salvare, non rimandare, non trattenere, non aspettare, non guardare, non rileggere, soprattutto.
va' avanti avanti avanti, non ti fermare, non trattenere.
si è brutti a volte, bisogna starci. oggi scrivo brutto, orrendo, oggi non so.
domenica 24 maggio 2009
O dagli inferi, ma piove

tra l'indice e il medio c'è un altro dito, mi han detto, che è invisibile ma conta come gli altri. e se includi questo dito invisibile, che si chiama inviso, allora conti fino a sei e sei dodici. mi hanno detto anche che, pur trovandosi tra il medio e l'indice, il dito inviso va contato sempre per ultimo, perché se lo diteggi come terzo di sei -secondo l'ordine tradizionale, dal pollice al mignolo- va a finire che qualcosa non ti torna.
è curioso che questa notizia, un po' stranetta per la verità, mi giunga ora. ora che ho conferito una mezza specie di svolta razio-cinica alla mia vita, al mio blog, alla mia barba e dio solo sa a cos'altro ancora.
la notizia staordinaria sbraca il passo all'unificazione dei due principi ontologici del being human (e non già dello human being, 'ccoperché non ho utilizzato l'espressione essere umano, in cui l'infinito ha funzione nominale, mentre a me quell'essere serve in una funzione verbale che l'espressione italiana non sa restituire):
1. il pollice opponibile (di cui si occupa, diciamo, l'antropologia fisica);
2. la facoltà d'astrazione (che ha a che fare invece, per farla breve, con l'antropologia culturale).
i suddetti principi vanno d'unque tra loro a unificarsi con la scoperta dell'inviso poiché esso è al contempo φύσις e ψυχή, fenomeno e noumeno, geometria e algebra.
se il pollice è la chiave dell'opposizione e del consenso, l'indice addita, il medio sa offendere, l'anulare è testimone talora falso e il mignolo fa la pace, l'inviso è il dito che determina l'intenzionalità dei gesti. ognuna delle funzioni digitali sopradescritte può infatti essere compiuta in modo consapevole e responsabile, circostanziata e utile, oppure no.
l'inviso in buona pratica sottrae alla mano la facoltà astrattiva intesa come defunzionalizzazione del gesto, per restituirle essa facoltà nelle forme e nelle sostanze della produzione simbolica.
il che significa, molto semplicemente, che senza l'inviso la mano non sarebbe capace di produrre senso e non saprebbe generare gesti non finalizzati alla comunicazione o a qualsivoglia altra funzione utile all'evoluzione della specie umana.
sabato 23 maggio 2009
Il sonno della ragione genera mostre

un modo efficace per evitare di rileggersi ad oltranza -ciò che è incepparsi in una viziosa, immobile vanità del cazzo- è scrivere, scrivere di nuovo. vanitosissimamente scrivere.
il punto è che gli umani, esseri non scevri d'un'irritante faciloneria, tendono a confondere quasi sempre il mezzo col fine, la causa con l'effetto, il contenente col contenuto, la metafora con la metonimia, l'orologio con la bussola, il cuore con la testa, il diavolo con l'acquasanta. sia chiaro che qui il termine "confondere" non sta a designare alcunché di negativo; la confusione è una pratica auspicabile, positiva e creativa, purché sospinta da una robusta dose di rà-ziò-nà-lì-tà.
d'unque ciò che ho affermato su in cima sta a dire che scrivere è un mezzo utile ad evitare di leggersi, e per estensione vivere è un mezzo per evitarsi la morte, ma sarà chiaro al più idiota di voi che se uno non ha pugno per scrivere e non ha polso per vivere deve consegnarsi al gomito, il quale sa produrre all'uopo un olio dalle proprietà miracolose.
quindi, per dirla con altre parole, quando vengono a mancare l'ispirazione e l'aspirazione, che sono rispettivamente la linfa dell'arte e quella della vita, bisogna appellarsi senza appello ad una musa brutta, cafona e intransigente: questa musa si chiama Fatica.
Fatica è come il rospo delle fiabe, se la baci o lasci che per una lunga notte alberghi sul tuo cuscino poi si trasforma in qualcosa di diverso. Fatica va intesa come confusione razionale:
giovedì 21 maggio 2009
Bay Journey

non ho davvero alcun bisogno di sentirmi ridicolo.
certe volte pare sia quasi inevitabile. ma non è mai utile, fidati.
ci si rende ridicoli quando si è costretti a dimostrare qualcosa. ma ci sono due precisazioni da fare: in primo luogo, ci si costringe quasi sempre da soli a dover dimostrare qualcosa; secondo, molto spesso la costrizione e il gesto che la incarna si instaurano nel giro di pochissimi istanti d'orologio, nell'arco di un tempo impossibile da gestire, nel mezzo di un gorgo di segnali per niente facili da decifrare. ed ecco che "qualcosa" fa sì che gli occhi siano su di noi, tutti, fissi, e ciascuno sguardo s'accompagna ad un paio d'orecchie, ad una bocca tesa in un sorriso innaturale, ad un'espressione via via più imbarazzata di fronte alla nostra figura loffia.
ma è peggio, molto peggio, quando noi solo siamo testimoni del nostro ridicolo, noi e nessun altro.
quando il desiderio di rivalsa ci abbaglia e ci coglie un tremore alle mani, quando vogliamo conquistare e invece aggrediamo o ammicchiamo con troppa veemenza, quando ostentiamo indifferenza ma ci bolle il sangue, quando improvvisamente una forza misteriosa e fugace ci mette in bocca una barzelletta o un aneddoto da raccontare, dileguandosi subito dopo (la forza) tra gli alberi, tra gli alberi lontano.
per chi conserva una dose d'autostima, sentirsi ridicolo è un segnale che c'è qualcosa da fare, qualcosa di molto semplice da fare: tornare ad essere presenti. chi è ridicolo è assente, di lui si ride alle spalle, in volto gli si mostra solo un velo di pietà solidale, di comprensione pallida.
sono stato ridicolo tutte le volte in cui non ho saputo imporre le mie esigenze, è molto semplice. sono stato ridicolo a me stesso quando ho permesso che l'arroganza e l'ingiustizia mi calcassero il tacco nella gola, quando non ho avuto la prontezza di dire: vaffanculo.
senza esclamativo.
sono stato ridicolo quando ho pensato di fare tutto da solo.
lo sono stato quando non ho voluto farcela da solo.
sono stato ridicolo quando c'era di che andare via e sono rimasto, quando era meglio restare e sono andato via, quando avrei dovuto trattenermi lontano e invece sono tornato.
sono stato ridicolo quando ho tentato di trasformare la nausea in piacere, quando ho spiato, quando ho sperato.
ed eccomi presente, a disperare, a capire che la nausea è la nausea e il piacere non ha niente a che fare con la nausea, eccomi coerente, eccomi capace di chiedere aiuto, eccomi dire vaffanculo.
eccomi ripudiare, eccomi vomitare, se è necessario. eccomi credere e affermare potentissimamente che la felicità è un dovere, e che mi viene da piangere quando vedo un uomo solo che mangia una pizzetta scaldata in un bar, la sera; e mi viene da piangere non perché immagino la sua infelicità, ma al contrario, perché a ben guardare non c'è niente di infelice nel fatto di non avere niente da raccontare e nessuno con cui condividere l'assalto improvviso della fame, della sete, del sonno, di ogni bisogno primario.
è infelice non avere la forza di esprimersi.
eccomi parlare come un adolescente maledetto, mucciniano, eccomi spremere ogni brufolo con gran dispiego di poltiglie chiare, tra il bianco e il giallo.
eccomi dire che sono esausto di inesprimermi.
i sogni sanno dettarci in un istante circostanze e situazioni complesse, e convincerci che quelle circostanze e quelle situazioni siano perfettamente plausibili, accettabili e financo reali, persino quando ci accorgiamo perfettamente di essere immersi in un semplice sogno.
mi chiedo come mai da svegli ci voglia così tanto a capire cosa stia accadendo.
mercoledì 20 maggio 2009
Arbitro Liberio

di certo non merito più un giaciglio in grembo al mondo.
devo poggiare i piedi.
non c'è giustizia senza libertà, e viceversa.
ecco quelle che si direbbero alcune frasi isolate, e invece no.
di certo non merito più un giaciglio in grembo al mondo. sono semplicemente troppo grande per accomodarmi sulle ginocchia di una madre qualsiasi. non so perché, mi viene in mente vinz, ripenso a tutte le volte che ho schernito la sua saggezza un po' anomala. come tutti, egli ha dei difetti, e deve difenderli dall'assalto della perfezione. la perfezione è un'idea nefasta, odora di incenso e contiene il terrore tacito della confessione. di rado in vita mia ho provato un disagio pornografico superiore a quello della clausura confessionale; l'alito di dio mortificato nella flatulenza orale dell'intonacato d'ufficio.
al mio dio ho tagliato le gambe.
al mio demone ho garantito troppi alimenti.
a vinz ho negato il diritto all'errore.
si vede che era un periodo così, in cui non sapevo far di meglio che farmi mattone e infilarmi nel mio muro.
ti chiedo scusa, mente anonima che leggi nel silenzio. anzi, ti porgo le mie scuse senza pretendere alcunché a baratto. non posso dire che sia stato ingiusto alzare un gran casino. di certo è stato ingiusto chiedere a me stesso di essere leggero se non lo ero.
non c'è giustizia senza libertà, e viceversa.
credo sia un bene che vada via lontano.
devo poggiare i piedi.
martedì 19 maggio 2009
Domande mal poste
dev'essere vero, com'è vero che la censura interviene proprio laddove si intravede un pensiero pericoloso. un pensiero pericoloso in tanti casi significa un pensiero utile, suscettibile di piacere a molti.
hai visto mai che mi censuro, dunque, per paura di piacermi troppo?
al di là della cazzata che ho appena detto, vorrei provare a scrivere davvero di getto, senza pesare troppo le parole.
e quel "pesare" che ho scritto poco avanti è un lapsus, avrei scritto "pensare", con una N tra la E e la S. ma è andata così.
più di una volta ho pensato (aridaje) che se la mia scrittura arranca è perché mi fermo a rileggermi, e mi incastro in un moto spiroide, scomposto, come una brutta frattura.
scrivere senza censura non significa per forza produrre una serie di volgarità gratuite. il pensiero utile non è volgare e non è gratuito, eppure procede senza inibizione. è così che vorrei pensare: senza pesare.
procedere senza arretrare è l'unico modo che conosca per diventare adulti. così mi dissero una volta: si diventa adulti non già quando ci si sposa o si va a vivere da soli, ma quando sottoponiamo simili questioni ad un vaglio serio e responsabile, sottraendole di forza al dominio dell'idea e dell'aspirazione.
aggiungerei che si diventa adulti quando tocca stare svegli la notte per trarsi fuori da una tasca vuota, o da un cuore nero, coincidenza retrattiva per appassionati dell'insignificato. già, perché nera è semmai la picca, che appare come un cuore rovesciato e munito di gambo, quasi una specie di foglia.
andare avanti significa ahimé perdere anche il filo, non di rado. tirare su un discorso che non tenga conto del passato mnemonico, ma di quello corporeo.
lo so che non mi spiego bene, ma non ha alcuna importanza, perché ciascuna delle parole che scrivo è dimentica della precedente precedente, è dimentica della
il corpo ci dice che fare è più semplice che dire, il dire ci riempie la bocca di stupide ipotesi e indicativi futuri, il fare predilige inaspettatamente il passato prossimo, e ci si ritrova già fatti senza aver avuto il tempo di dire A.
questo è adulto, svegliarsi una mattina senza avere in testa lo straccio di un'idea, svegliarsi e andare.
può sembrare idiota ma non lo è.
pregherò il cielo di asciugarmi da quest'insonnia avida, che mi vincola ancora alla dea Idea, come fosse qualcosa che si può mangiare, toccare e quant'altro. e invece adulto è animale, è sapere esattamente cosa e non chiedersi come nemmeno per un istante. è trarsi fuori da una tasca vuota senza fiatare, senza chiamare qualcuno in nostro aiuto, senza rompere i coglioni, in sostanza.
e già che ci sono inizia a piacermi questa cosa dello scrivere senza specchietti retrovisori, o specchietti per allodole e altri uccelli. perché adulto è anche decidere di ribaltare l'universo una volta per tutte, e credere che andrà bene, perché male non può andare, una volta appurato che prima o dopo tutto quanto in qualche modo ineluttabilmente finisce.
per non dire del fatto che ciascuno di noi può testimoniare di essere vivo, ma ad oggi nessuna fonte autorevole ha riferito mai di qualcuno che dicesse in prima persona "io sono morto" se non in senso traslato o in previsione di un qualcosa che ovviamente non s'era avverato ancora al momento della dichiarazione.
tant'è che tutti possiamo dire che la vita è, e quindi sarebbe il caso di viverla fuori dall'angoscia del perché, immersi finalmente in un mondo di fatti e misfatti, di affermazioni e negazioni, di io e di te, senza cercare risposte.
e se mai ammettessimo domande e risposte, teniamo a mente che non esistono risposte sbagliate, esistono solo domande mal poste.
lunedì 18 maggio 2009
Intervallo
niente di grave, in teoria; fu qualcosa, però, che mi diede l'esatta misura della mia inconsistenza, della mia incapacità di vivere una vita emotivamente sostenibile. da allora ho iniziato a spiarmi. il tempo e la fatica mi hanno svelato cose che di me non sapevo; mi hanno timidamente suggerito come dare spazio a desideri che appartengano solo a me.
sarebbe stato enormemente più bello scoprire per tempo che i desideri miei e quelli degli altri potevano coincidere.
ma senza quel delirio non avrei mai riconosciuto le condizioni essenziali alla condivisione di un desiderio.
domenica 10 maggio 2009
Cul de sac
apro gli occhi e mi ritrovo il cellulare in mano, è una specie di frutto nero. lo schermo mi informa che dovrei essere al lavoro da un quarto d'ora, bestemmio iddio blasfeta, salto giù dal soppalco che geme, beccheggia, mi metto addosso le cose di ieri, di poco fa, faccia, denti, macchina, lavoro. mezz'ora di ritardo ma non importa, non importa niente a nessuno, non c'è nessuno a parte me.
questa sì che è una droga seria: l'adrenalina. gratuita entro determinate quantità, pericolosissima. resta da capire come si fa a procurarsene una dose nella notte dei tempi, quella notte lì, rifrangente, quella che non passa mai e dura un'ora, neanche, e che ti inghiotte e che ti vomita lontano.
sì, perché l'adrenalina si compra solo a suon di ritardo e soprassalto, ritardo e soprassalto. e io sono dipendente da questa specie di pioggia sottile, infinitesima, interiore, calda, fredda, vapore di stella. come l'estate che avvampa, che è una lacrima enorme e stordisce, e rende enormi mosconi.
ho meritato sonni tranquilli e ho indossato i panni dell'incubo, guardandomi sbalordo allo specchio nero di quella notte lì, di cui s'è detto. chiedevo che non ci fosse bisogno di schiantare ogni speranza prima di farsi del bene, che si potesse sparire in un qualche mare tiepido senza per questo giocare a nascondersi nell'abisso e riemergere con la faccia di pesce lanterna, con lo sguardo scolpito nell'ombra, con in mano una tazza di acqua calda che ha l'odore inconfondibile del rimedio.
la pozione, l'elisir, è inodore, invece.
avrei dovuto giocarmi per tempo il ruolo del pianoforte a coda, come un demonio, senza coperchio, così che ci si potesse sdraiare sui tasti e suonarli tutti in uno e così da poter stregare una buona volta e senza appello quello stradone secco, quello degli operai magiari che giocano a carte all'impiedi.
quello di quando ero così lontano che non si riusciva a vedere quanto fossi bello.
domenica 3 maggio 2009
Buona sostanza
e si sa -questo è il punto- che word le maiuscole te le mette in automatico. quindi, insomma, mi sono abituato a scrivere senza badare allo shift e -anche questo si sa- quando ci si abitua a una comodità è difficile tornare indietro.*
ora, i più occhialuti tra voi obietteranno che un computer fa esattamente quello che gli ordini di fare, né più né meno. i più simpatici sapranno ammettere che invece il computer ha una propria autonomia, e un carattere ben definito. al che gli occhialuti, per recuperare in extremis un barlume di simpatia, ribatteranno: sì, d'accordo, il computer ha un carattere ben definito, ma è lo stesso per tutti i computer: un carattere da stronzo.
tante parole per dire, insomma, che il vezzo della minuscola non è mi è vezzo, ma vizio.
c'è anche il fatto che, per l'allergia che mi dà la carta -non in termini fisiologici, ma figuràti- non scrivo mai a mezzo di penna o matita. e il foglio elettronico spesso mi si impone col suo blank, colmandomi, vuotandomi, empiendomi di niente.
e qui, poco avanti, in una frase, ho detto tutto, tutto quello che volevo dire: che cioè ogni cosa è senza dubbio il contrario di sé: così come blank e black hanno la stessa radice, e quindi l'assenza di colore o la somma di tutti i colori in qualche modo si equivalgono.
sabato 11 aprile 2009
Equi libri

io e piòtr ci si rincontra sempre per caso, qua o là, ed è bello così. l'altro giorno camminavo lungomare, un po' sperduto, senza meta né vicina né lontana. guardavo gente seduta sulla renella, seduta o in piedi con un pallone e un ragazzino, o col cane, seduta con un libro, con una persona accanto, con una persona tra le braccia, tra le labbra. pensavo a me dal di fuori, mi chiedevo se il mio passo dal di fuori sembri pesante così come lo sento io, mi chiedevo se da fuori sembro un sacco di sabbia, perché è così che a volte mi sento. e non è necessariamente una sensazione sgradevole, è perlopiù una sensazione neutra.
e nel bel mezzo di questa domanda me lo ritrovo di fronte, piòtr, in ciabatte da mare, infilato in un paio di calzoni né lunghi né corti, in una camicia ampia, di colore chiaro, chiarissimo, vicino al bianco. lo riconosco subito dall'andatura un po' danzante e da quel sorriso che è un equilibrio friabile, come di biscotto triangolare, un sorriso di baricentro, tra tre vertici, tre espressioni: 1. la so lunga; 2. sono un idiota completo; 3. sono felice. che poi, in fondo, sono tre espressioni abbastanza sinonime.
il sole è alto, illividisce tutto, anche piòtr da lontano sembra poco più che uno spaventapasseri, una sagoma, ma cammina, sta a favore di vento e cammina, e va. nella testa i pensieri miei fanno come fossero a casa loro, vanno avanti, evolvono, crescono, invecchiano, muoiono e rinascono, fuori da ogni tempo. e piòtr si avvicina, io mi avvicino a lui, ci avviciniamo. alza un braccio, anche lui mi riconosce quasi subito, anche se non so da cosa mi riconosca. e come un frutto improvvisamente maturo mi viene in testa una domanda: cosa mi rende riconoscibile?
piòtr: quanto tempo!
transfuga: quanto?
p: non tanto, in effetti..
t: vero. né poco né tanto.
p: vero?
t: vero
e allora faccio a lui questa domanda, questa domanda che m'è balenata in testa.
t: cosa mi rende riconoscibile, secondo te?
e mentre faccio questa domanda mi viene il sospetto che sia una domanda un po' cretina, e sicuramente forzata, una domanda matura -perché le cose che balenano così, dal nulla, spesso si stanno preparando da tempo a venir fuori- ma incastrata senza criterio in una conversazione già avviata, ancorché acerba.
e un istante dopo mi accorgo, appunto, che è una domanda che volevo fare a qualcuno da tanto, da sempre.
t: cosa mi rende riconoscibile?
p: il contorno. il sole è alto, il cielo livido, i colori non si distinguono, e non si distinguono bene nemmeno i tratti e le espressioni dei volti. ti si riconosce dal contorno.
t: dalla sagoma del corpo? della faccia?
p: non proprio. l'ultima volta avevi i capelli più lunghi, e forse faceva più freddo, o più caldo. dal contorno, ti si riconosce, dalla maniera che hai di spostare l'aria, di modificare i pensieri quando qualcuno ti si avvicina.
t: che pensieri avevi e che pensieri hai?
p: prima pensavo a questo (e fa un gesto col braccio lungo l'orizzonte bianco, e il palmo rivolto verso l'alto), ora penso improvvisamente ad un sacco di sabbia.
t: un sacco di sabbia?
p: un sacco di sabbia. ti ho riconosciuto da questo, dal pensiero che m'è balenato in testa all'improvviso: un sacco di sabbia. lo spostamento d'aria, la tua vicinanza, mi hanno fatto pensare a questo: un sacco di sabbia.
t: un sacco per dire tanto? o per dire un sacco, un sacco di quelli di tela, di quelli di patate o della spazzatura?
p: non lo so. non faccio distinzioni tra parole e cose, lo sai. non ne sono mai stato capace.
l: nemmeno io, almeno non sempre. e basta, però? non mi si riconosce da niente altro?
p: sì, forse da qualcos'altro. ma non è una tua peculiarità, non è un qualcosa che hai esclusivamente tu. è qualcosa che ciascuno a modo proprio ha.
t: di che si tratta?
p: si tratta del baricentro. le persone si riconoscono da questo, dal baricentro che hanno, dal punto in cui tende a riposare lo sguardo altrui, lo sguardo di chi le guarda. e spesso la bellezza, la simpatia, il carisma, il fascino, dipendono da dove hai il baricentro. gli idioti, i fubri e i felici e gli hanno il baricentro sulla bocca, una bocca a forma di triangolo, più grande se sono accesi, più piccola se sono spenti. i belli lo hanno più sotto, tra mento e collo. gli infelici lo hanno sul basso addome. tu lo hai poco più in alto. ma a volte se ne intravede un altro, in te, di baricentro. non si capisce bene dove. sui polsi, forse, o sul naso.
t: e i carismatici, gli intelligenti?
p: i carismatici e gli intelligenti hanno qualità equamente distribuite tra gli occhi e le mani, e spesso portano le mani in prossimità degli occhi. quando sono insicuri si tappano gli occhi con le mani, o si grattano la testa. quando sono sicuri di sé tracciano geometrie nel vuoto.
t: e i ricchi, i poveri?
p: i poveri sui piedi, i ricchi sul petto. i cattivi su un occhio solo. i buoni sulla nuca, gli stronzi sulla schiena, i simpatici sulle chiappe o sulle cosce.
t: i sovversivi invece? aspetta, lasciami indovinare. sulle spalle.
p: era facile, questa. i sovversivi sono una figura residuale. ce ne sono pochi, in giro. se non hai da fare andiamo a cercarne qualcuno. cerchiamo, insomma, qualcuno che abbia qualcosa da insegnarci.
e io e piòtr ci incamminiamo lungo il mare, e poi torniamo verso l'entroterra. calchiamo strade bianche di sole, parchi secchi, piazze deserte.
camminiamo in silenzio ma ciascuno di noi, ne sono certo, sta pensando a questo: è arrivata l'estate.