ora, negli ultimi tempi ho recitato spesso una frase, un po' mucciniana ma non per questo priva di fascino, che fa più o meno così:"uno pensa alla vita come a qualcosa di là da venire, e invece la vita è adesso." il punto è che da giovani avvertiamo la vita come qualcosa di là da venire, perché per certi aspetti è così, perché la nostra pelle e i nostri pensieri inseguono davvero una forma ed una sostanza che non siamo ancora. e quando uno prende a pensare alla vita come a un qualcosa che esiste già, che è qui, bello o brutto che sia, allora vuol dire che non è più giovane, vuol dire che ha perlomeno iniziato a calcare il sentiero dell'età adulta.
cambiamo discorso. mi pesa ancora la fatica degli esami di una vita, di quelli che ho fatto ma soprattutto di quelli che non ho fatto, tanto per buttare là una banalità, una frase ad effetto.
però è vero, ci penso e mi dico: ma perché minchia, uno, poi, dovrebbe mai sottoporsi al giudizio degli altri? perché mai le questioni importanti della nostra esistenza devono essere scandite dall'esame e non magari da una notte di sonno, da una cotoletta impanata, da un tiro di sigaretta? o da un prelievo al bancomat? o da un caffé nel bicchiere di carta, bevuto camminando?
nell'arco sempre teso di una giornata tra le mura -e oltre- di questa città, non sai quante e quante volte mi viene in mente qualcosa da scrivere, qualcosa che mi dico: stasera piglio e lo scrivo, lo trascrivo. ma poi i pensieri si sommano, e scoprendosi incapaci di sommarsi come cristo comanda allora si moltiplicano -come cristo comandò a pani e pesci- diventando ben presto potenze gli uni degli altri (ché vuoi mettere il gusto di mangiare il pesce col pane e il pane col pesce, anziché o l'uno o l'altro), e allora ecco che un'idea in quattro e quattro otto (o, per meglio dire, in quattro alla quarta duecentocinquantasei) si trasforma in qualche splendido nulla, cioè a dire in un qualche numero talmente complicato che nessuno riesce a contarlo.
niente di nuovo, per chi conosce queste pagine immaginarie.
avanti dunque con la mia dose di niente, di nuovo. anziché dose stavo per dire diaria ma di fatto alla mia scelleratezza non è concesso neppure il beneficio della costanza, della quotidianità. e si sa che essere virtuosi nel vizio è diabolico, così come eccedere nella virtù. mentre a me -che sono cresciuto a pane, antipasto, primo, secondo, contorno, dolce, frutta, caffè, ammazzacaffè, acqua, vino, bevande, coperto e mancia- spetta un'angelica mediocrità.
tutto questo non è vero, perché invece mi si affaccia dentro un essere serio, disciplinato, prodigo di buoni propositi e di soluzioni concrete, rapide ed efficaci. un essere capace anche di aspettare e pazientare quand'è il caso. un essere capace di accontentarsi di pane e pane o di pesce e pesce.
e non mi è facile ammettere di essere io, quell'essere. di essere così, divenuto finalmente uno che sa quello che deve fare e soprattutto quello che vuol fare. divenuto uno che diviene.
uno che tutto sommato si alza, che tutto sommato lavora, studia, risolve, dialoga, indaga, scopre, reagisce, rimedia, o incassa. uno pane al pane e vino al vino, tanto per tornare agli ingredienti del sacro ricettario.
grida anecoiche medicano un mio bruciore di gola.
e scrivo male, mi sembro io a quindici anni. non che col tempo sia migliorato poi tanto, anzi. ma almeno ho capito, col tempo, che raramente l'urgenza sa mettere in scena un capolavoro.
e vabbè, scrivere anche di merda, se serve, pur di saziare l'interrogativo: davvero? davvero eravamo lì? davvero ero io? noi? tu? non ho creduto nemmeno per un istante di esserci.
una volta conoscevo parole migliori, e le mele avevano una buccia di colore diverso. mi scoppiavano le tasche, andavo al caffè e quando ne uscivo certe idee dovevo metterle in borsa, perché in testa non mi ci stavano. potevo tutto e non volevo niente.
stasera, invece, in camera mia c'è una luce un po' cruda, debole. non ho genio di ragazza profumata, sono incapace di scegliermi le tende e le candele, e tutto quel che mi circonda va sul grigio. con questo non voglio dire alcunché di triste. è che non ho miti da spalmare alle pareti e non ho musiche degne d'ascolto. non ho nessuno a cui pensare. stasera in camera mia non c'è che una persona, e sono io, e leggo, scrivo, per lo più sto a ciondolare, e il tempo mio fatica a starmi dietro.
una volta conoscevo parole migliori, e le mie mani andavano dritte al dunque, quando si trattava di scrivere. se mi rileggo ora non mi piaccio ma questo non vuol dire affatto che io sia migliorato.
è vero, è sempre vero che quando si fa una cosa nuova è così complicato farla che per forza ti viene brutta.
questa frase -che deve aver scritto picasso, da qualche parte- stava in epigrafe alla mia tesina di maturità. a chi mi esaminava, di quel libriccino non piacque nulla, e non c'è di che meravigliarsi, tutto sommato. era un lavoro abbastanza onesto, ma io non ero stato -negli anni della scuola- onesto abbastanza da poterlo sostenere. quell'epigrafe suonava come un'apologia, una excusatio non petita.
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