la domenica somiglia ad un giorno di malattia. se non andavo a scuola scoprivo un mattino moribondo, sempre uguale, senza brivido. una volta scemata la dolcezza di quell'ora in più di sonno, tutto sprofondava indistintamente in uno scatolone di giochi mezzi rotti. un polverone giallo, verso le 10, tagliava in due la stanza.
ci sono luci che restano impresse perché son rare, altro che tramonti: la luce, appunto, di una tarda mattinata d'inverno trascorsa in casa anziché a scuola. con le finestre insolitamente spalancate, per ridare ossigeno a luoghi altrimenti gonfi di anidride carbonica, come lattine di coca-cola.
ma oggi non è domenica, oggi è giovedì, e devo andare a lavorare, ancorché nel tardo pomeriggio. e non sono nei luoghi di sempre, sono nei luoghi di mai. sono a Parigi, o Sparigi, o Les Lilas, o dovunque vogliate, in fin dei conti. fino a prova contraria.
le luci in terrazza sono sorde, appannate per via di un cielo che non promette niente di buono, ma al tempo stesso non colpisce, non si lascia andare. di tanto in tanto arriva una zaffa leggermente fresca. sono io questo cielo, adesso tutto mi è chiaro. bella cazzata, eh?
mannò, è così, ciascuno di noi vive su un elettrone di ciascuno degli atomi che compongono le cellule di cui siamo fatti.
questa non è una teoria, è una certezza assoluta, non c'è altra spiegazione: così è fatto il cosmo.
tutti noi viviamo in Atomia, e vi dirò di più: nulla è accaduto prima della nostra nascita. prima della nascita di ciascuno di noi.
tutto ciò è perfettamente coerente, se ci pensate bene: noi tutti coesistiamo ma in un mondo di cui ciascuno di noi è abitatore irrimediabilmente solitario. tutti i tempi coesistono in un solo tempo immemore di qualsivoglia storia, tutto è fermo da sempre all'istante immediatamente precedente un big bang che non avverrà mai. proprio come questo cielo terrorista, qui, sopra la mia testa. la vita -ohibò- è una specie di cortometraggio che somiglia tanto ad un fermo fotogramma.
come si fa dunque ad essere pessimisti? non c'è scelta, questo intendo, non c'è niente da piangere. e chi vuol ridere, faccia pure, non c'è proprio niente di male.
ripenso a quella scena di Momo -il film di Schaaf basato sul romanzo di Ende che non ho letto- in cui, se non invento, la piccola si aggira tra gli spazi di un tempo immobile.
non so se rendo l'idea, ma questo è tutto ciò che sento di dover fare.
per caso ho trovato, poi, uno stralcio di romanzo che si addice al mio cazzeggio:
« Allora, ti trovi bene qui? » chiese uno degli uomini.
« Sì », rispose Momo.
« E pensi di fermarti qui? »
« Sì, magari! »
« Ma non ti aspettano da qualche parte? »
« No. »
« Voglio dire, non devi tornare a casa? »
« Io qui sono a casa », assicurò prontamente Momo.
« Da dove vieni, bambina? »
Momo fece con la mano un gesto vago indicando un punto qualsiasi, comunque distante.
« Chi sono i tuoi genitori? » continuò a domandare l’uomo.
La bimbetta guardò perplessa lui e gli altri e fece un’alzatina di spalle. Quelli del gruppetto si scambiarono un’occhiata e sospirarono.
« Non aver paura, non vogliamo scacciarti », continuò l’uomo, « vogliamo aiutarti. »
Momo annuì, zitta e non del tutto convinta.
« Hai detto che ti chiami Momo, vero? »
« Sì. »
« È un bel nome, ma è la prima volta che lo sento. Chi te lo ha dato? »
« Io », disse Momo.
« Da te ti sei chiamata così? »
« Sì. »
« Quando sei nata? »
Momo ci pensò un po’ su e infine disse: « Se mi ricordo bene, ci sono sempre stata »
fino a gennaio sarò vacataire d'accueil nella sezione musica della biblioteca del centro georges pompidou. il mio lavoro consiste nello stare seduto al mio bureau.
passo il mio tempo a dialogare più o meno seriamente col collega di turno o a scartabellare uno a caso tra centinaia e centinaia di libri di musica: che so, il trattato d'armonia di schoenberg, qualche lurido libello perennemente conteso tra ingegneria del suono e filosofia contemporanea, qualche spartito, qualche manualetto sulle forme della tradizione classica.
ciò che latita ancora è un progetto con un capo e una coda, un qualcosa di rognoso da fare, da fare sul serio. ovvero un qualcosa da non fare, una sana fonte di nuovi -ancorché non proprio inediti- sensi di colpa. verrà.