lunedì 24 agosto 2009

Tempi Miti


per le vetrine estatiche della biblioteca, dal di dentro, è plausibile che lo sguardo guizzi sui tetti di Sparigi, ratto più di cento gatti neri neri, in cerca, se non altro, della ragione. dapprima la ragione tenera, quella fallibile di confondersi col panico, cioè a dire quando ci si sente rappresi intorno alla bocca dello stomaco.
e poi la ragione madre, madre di ogni pensiero degno di tanto nome, che è quando si passa in rassegna l'inesplicabilità degli esistenti.

ed ecco che, proprio laddove si cercava tra le sagome l'immoto -il grido inaudito di quello scintillante ed inviso cuore di gemma nera che è la certezza, impermeabile al soffio della vita o viceversa incapace di penetrare in essa- ecco, ecco che il tuono rivela uno stormo di tortore, o di rondini, che prima non c'era, che nasce da uno spavento del tutto impersonale, e che pure nello spavento poi resta solido, non si sparpaglia, non disdegna coreografie millimetriche, trasfigurando -nella curvilinea levità di qualche raro istante- l'istinto di sopravvivenza in un gesto che quasi quasi è contrario a tale istinto: l'arte.
è dunque l'arte così vicina alla vita, la vita tutta sola, quella che ha a che vedere cogli uomini quanto coi maiali e le micorrize, e i polli arrosto stesi ad asciugare, e le sale da tè e i tacchi sull'asfalto?
un altro indizio l'ebbi sulla terrazza di casa, mentre che sciorinavo intimi lavati a mano. cercavo nel cielo uno strascico di cometa, e niente.
ma la cosa più bella era il gommare lontano di mille automobili invisibili.
di colpo mi è venuto in mente un viaggio notturno in pulmann, uno qualsiasi. no, non è vero: uno in particolare, quello da edimburgo a londra, 9 anni fa.
nove anni fa.
è evidente, mi pare, che il mito sia l'anello di conigunzione tra il caso e la certezza.

domenica 16 agosto 2009

Atomia

la domenica somiglia ad un giorno di malattia. se non andavo a scuola scoprivo un mattino moribondo, sempre uguale, senza brivido. una volta scemata la dolcezza di quell'ora in più di sonno, tutto sprofondava indistintamente in uno scatolone di giochi mezzi rotti. un polverone giallo, verso le 10, tagliava in due la stanza. 
ci sono luci che restano impresse perché son rare, altro che tramonti: la luce, appunto, di una tarda mattinata d'inverno trascorsa in casa anziché a scuola. con le finestre insolitamente spalancate, per ridare ossigeno a luoghi altrimenti gonfi di anidride carbonica, come lattine di coca-cola.
ma oggi non è domenica, oggi è giovedì, e devo andare a lavorare, ancorché nel tardo pomeriggio. e non sono nei luoghi di sempre, sono nei luoghi di mai. sono a Parigi, o Sparigi, o Les Lilas, o dovunque vogliate, in fin dei conti. fino a prova contraria.

le luci in terrazza sono sorde, appannate per via di un cielo che non promette niente di buono, ma al tempo stesso non colpisce, non si lascia andare. di tanto in tanto arriva una zaffa leggermente fresca. sono io questo cielo, adesso tutto mi è chiaro. bella cazzata, eh?
mannò, è così, ciascuno di noi vive su un elettrone di ciascuno degli atomi che compongono le cellule di cui siamo fatti.
questa non è una teoria, è una certezza assoluta, non c'è altra spiegazione: così è fatto il cosmo.
tutti noi viviamo in Atomia, e vi dirò di più: nulla è accaduto prima della nostra nascita. prima della nascita di ciascuno di noi.
tutto ciò è perfettamente coerente, se ci pensate bene: noi tutti coesistiamo ma in un mondo di cui ciascuno di noi è abitatore irrimediabilmente solitario. tutti i tempi coesistono in un solo tempo immemore di qualsivoglia storia, tutto è fermo da sempre all'istante immediatamente precedente un big bang che non avverrà mai. proprio come questo cielo terrorista, qui, sopra la mia testa. la vita -ohibò- è una specie di cortometraggio che somiglia tanto ad un fermo fotogramma.
come si fa dunque ad essere pessimisti? non c'è scelta, questo intendo, non c'è niente da piangere. e chi vuol ridere, faccia pure, non c'è proprio niente di male.

ripenso a quella scena di Momo -il film di Schaaf basato sul romanzo di Ende che non ho letto- in cui, se non invento, la piccola si aggira tra gli spazi di un tempo immobile.
non so se rendo l'idea, ma questo è tutto ciò che sento di dover fare.
per caso ho trovato, poi, uno stralcio di romanzo che si addice al mio cazzeggio:

« Allora, ti trovi bene qui? » chiese uno degli uomini.
« Sì », rispose Momo.
« E pensi di fermarti qui? »
« Sì, magari! »
« Ma non ti aspettano da qualche parte? »
« No. »
« Voglio dire, non devi tornare a casa? »
« Io qui sono a casa », assicurò prontamente Momo.
« Da dove vieni, bambina? »
Momo fece con la mano un gesto vago indicando un punto qualsiasi, comunque distante.
« Chi sono i tuoi genitori? » continuò a domandare l’uomo.
La bimbetta guardò perplessa lui e gli altri e fece un’alzatina di spalle. Quelli del gruppetto si scambiarono un’occhiata e sospirarono.
« Non aver paura, non vogliamo scacciarti », continuò l’uomo, « vogliamo aiutarti. »
Momo annuì, zitta e non del tutto convinta.
« Hai detto che ti chiami Momo, vero? »
« Sì. »
« È un bel nome, ma è la prima volta che lo sento. Chi te lo ha dato? »
« Io », disse Momo.
« Da te ti sei chiamata così? »
« Sì. »
« Quando sei nata? »
Momo ci pensò un po’ su e infine disse: « Se mi ricordo bene, ci sono sempre stata »


fino a gennaio sarò vacataire d'accueil nella sezione musica della biblioteca del centro georges pompidou. il mio lavoro consiste nello stare seduto al mio bureau.
passo il mio tempo a dialogare più o meno seriamente col collega di turno o a scartabellare uno a caso tra centinaia e centinaia di libri di musica: che so, il trattato d'armonia di schoenberg, qualche lurido libello perennemente conteso tra ingegneria del suono e filosofia contemporanea, qualche spartito, qualche manualetto sulle forme della tradizione classica.

ciò che latita ancora è un progetto con un capo e una coda, un qualcosa di rognoso da fare, da fare sul serio. ovvero un qualcosa da non fare, una sana fonte di nuovi -ancorché non proprio inediti- sensi di colpa. verrà.

sabato 15 agosto 2009

Interkenzo

è sbocciato un bel sole sulla mia terrazza, nella sonnolenta città dei lillà.
sono una pietra, una perla nera, minuscola, del peso di un pianeta, ferma al centro di un turbo che in un solo gesto disperde e raccoglie, spazza via e inghiotte. tutto si muove e io sto lì.
ma stamane mi sono svegliato col bisogno preciso di una sfida nuova. è il sentimento più banale che mi abbia mai sfiorato di primo mattino -tralasciando che l'orologio segnava mezzogiornomenunquarto.

nell'intanto vado a farmi quattro bracciate in piscina, il che da sempre stimola la diuresi del mio processore.

martedì 4 agosto 2009

La colpa

è che mi hanno attraversato generazioni intere di amici. che dico amici: conoscenti.
sono stato un fumatore giallo, un bevitore rosso, un mangiatore nero. un nuotatore celeste, un corridore verde acqua. è che mi hanno quasi tirato dietro insulti come: ladro! ladro di notte! ladro di piccole ore vacue! figlio di una siepe! 
ladro! di luci, di odori! scarpa vecchia!
è che mi hanno offerto un bastoncino di zucchero, ed erano sconosciuti. e quant'è vero che non bisogna accettare doni dagli sconosciuti -menchemeno caramelle-, tant'è vero che la generosità degli sconosciuti merita riconoscenza.
un ladro, però, accetta doni di malgrado.
e il punto è questo: è che da anni giro attorno ad una nota, o due, o tre, massimo sette, o dodici. o più.
sono stato un musicista, lo sono stato senza colore; talento è il nome di una moneta. e il denaro è qualcosa che a farne ci vuole tanto, e a disfarsene ci vuole poco e niente. come ogni cosa, più o meno. come ogni cosa e il suo contrario.
come pulire e sporcare. come seminare e dissipare, come cucinare e mangiare. come l'amore e la guerra.
prenderei indietro la fede negli altari mesti delle case di una volta, e nei ceri, se potessi avere dodici anni e ricominciare tutto da capo. che dico dodici: quindici, diciannove, ventitré. che dico: ventinove anni di meno: zero.
se potessi riacciuffare lì da dove ho smesso di credere e gioire per certe minuscole cose.
mi viene da dire che l'uomo nasca fiore e crepi legno.
ma io voglio tornare a leccare le pagine caramellate di un catalogo di sogni, come facevo su balconi poveri estivi, tagliato in due da una ghigliottina saracena, mezzo nel sole e nel cicaleccio, l'altra metà nel fresco della stanza, alla sesta ora. quello sì che era amore.
amore, quando tutto era possibile, e tutto era vero. e la mia chitarra scassava il cazzo a tutto il paese. e una volta mi si disse persino che certi miei suoni sguaiati avevano schiattato una mucca. vidi con questi occhi il contadino che dava al fuoco quella salma, quel martire, quella prima vittima incolpevole dei miei capricci.
e se allora certi parenti larghi di bocca e spietati, dal balcone accanto, tra le lacrime m'avessero sibilato all'orecchio, nel silenzio, mi avessero sibilato, dicevo, che andava a finire così, e insomma m'avessero detto:

"bimbetto! la musica è bella, ma pensa alla vita che avanza!"

là, io mi sarei sganasciato, lo giuro, 
e avrei fatto tutto un impasto di voce ed orgoglio:

"sarò quel che voglio. la colpa è la tua, che non ci hai creduto abbastanza."

domenica 2 agosto 2009

Ipse dixit

qualcuno ha utilizzato la teiera e non ha avuto cura, poi, di vuotarla di certi petali e scorze, e d'un liquido direi rosso, sicché ho dovuto provvedermi l'infuso presso una specie di bacinella di biancoccio, una conca da brodo di cane. ci ho tirato dentro una zolletta e mezza e, per non inzaccherare un cucchiaino, ho fatto ondeggiare il sacchetto dell'infuso nell'acqua appena calda, sicché quest'ultima ha assunto un colorito ambrato mentre lo zucchero migrava dalla vista al gusto.
passeggiando funambolico su per una breve rampa di scale con la ciotola tra due mani, mi sono rifugiato nella suite avvampata a sorseggiare il preparato oramai tiepido, rimarcando come i primi sorsi fossero decisamente buoni e giusti, i secondi velati di melodramandorlàmara, i terzi ed ultimi contesi tral dominio agropiccante tipico dei poli di batteria stilo e quello puttanesco del miele millefiori.
di fuori, incessante e lieve, frigge una bella pioggia verde. tant'è che mentre l'acqua si apprestava all'infusione, sono uscito a recuperare una settimana di mutande e calzini stesi a bagnarsi.