venerdì 12 giugno 2009

You have to be great


chiamare per se stessi un'ambulanza è un'esperienza che va fatta, prima o dopo, nella vita.
credere di stare vivendo gli ultimi istanti della propria breve esistenza è abbastanza spiacevole.
scoprire ad un tratto che la propria fine non è imminente -la diagnosi è ipoglicemia e conseguente crisi di panico- e vedersi circondati da persone che soffrono davvero ti rimette al mondo, ti squarcia il cuore in due. e se prima piangevi perché non capivi cosa stesse succedendo, ora piangi perché c'è una bambina che ha dato una craniata al cavallo a dondolo, nel giardino dell'asilo. piange anche sua madre, e cerca di dissimulare.
ma i grandi, di solito, sanno mantenere la calma.
a me non era mai capitato di perdere la mia in questo modo. di non sapere cosa fare se non chiedere aiuto a qualche sconosciuto: potete chiamare qualcuno? mi sento male. 
due ragazze molto giovani mi guardano incredule per alcuni secondi, poi si guardano tra loro come un ventriloquo col suo pupazzo, poi accennano ad impugnare il cellulare, che in qualsiasi altra situazione avrebbero saputo maneggiare con una certa disinvoltura.
e intanto io, accasciato sulle scale mobili della stazione, ho già fatto il 118. mandate un'ambulanza, sto male. ho ventotto anni, anzi, ventinove.
plano fino al gabbiotto della metro roma, mi sento mancare, scoppio in lacrime. di qui in poi è una storia in discesa. ricevo le prime cure dal personale della stazione, mi offrono un bicchiere d'acqua e un flauto del mulino bianco, all'albicocca. personale che ben presto inizia a interessarsi alla mia vita privata:

- ti droghi? soffri di crisi di panico? 
- no. no. 
- sta' tranquillo che va tutto bene.
- per il momento mi concedo il lusso di dubitarne.

arriva l'ambulanza, mi rimorchia e procede verso l'ospedale ad un'andatura funebre, il che mi fa supporre -paradosso- che davvero la mia vita non è in pericolo.
tuttavia in ospedale mi visitano quasi subito, cose da non credere, se avevo una frattura scomposta hai voglia te ad aspettare. il colloquio col giovane medico, una ragazza paffuta, si trasforma in un siparietto onirico:

- prendi farmaci per l'ansia?
- sì, prendo farmaci per l'asma.
- insomma te ne vai a parigi?
- vediamo cosa ne pensa mia madre.

e di tanto in tanto un'infermiera di incerta provenienza intervalla le battute tra me e il medico con qualche esclamazione popolare, ogni volta in un dialetto diverso.
è tutto. mi fanno uscire da quella porta "da cui normalmente non si potrebbe uscire".
rieccomi nel sole, col mio respiro, il cuore che va per conto suo, in silenzio, le lacrime ancora appese agli angoli degli occhi.

sarà che stavolta ho davvero cambiato tutto.
sarà che per quanti sogni, desideri, bisogni, volontà, opportunità e libertà e cazzi e mazzi io possa avere, bon, non so davvero cosa mi attenda a Parigi.
sarà che, se anche il viaggio dovesse rivelarsi una banale vacanza, di quelle lunghe e anche un po' noiose, niente è più uguale a prima.

sarà che per la prima volta ho deciso qualcosa per me stesso.
c'est incroyable.

lunedì 8 giugno 2009

Sim Camille



psicotico-ti
psicotico-tà

mi si sgrana di dosso la pelle, un bicchiere di cristo, frastorna, vetro molle, è l'estate che annegra.
eccola, è passata un'automobile degli anni ottanta, settanta, nemmeno:
Simca Mille
sfrecciava, coi sedili di quelli neri neri, che magari era pelle, e che dolori coi calzoni corti, e che nausea, una specie di sugo di carne, l'aria, in quei pomeriggi là, tra stecchini colorati di cotone per le orecchie, dei quali
-mi si spieghi come-
la rena era zeppa. come pietre preziose.
ero piccolo, io, ma già tutto formato, come ora, uguale.
tutto mi era già come sarebbe stato, senza ombra, senza errore.
e non esistono le cicatrici, non è il coltello.
ma c'era in mezzo anche la felicità, che è come quando mi dicevano
"siamo quasi arrivati"
e il sedile era freddo e io contavo fino a Mille. e io non arrivavo a Mille, e noi non arrivavamo mai.
Simca Mille.

mercoledì 3 giugno 2009

E-stanze


ma che peccato che non siano in cinquecento, in mille, in millecinquecento a leggere le mie storie. che peccato non essere Collodi o Dante, Ovidio o Steinbeck, Kafka, Checov, Li Po, Chaucer, Esopo, Gadda, Joyce, chiunque, chiunque abbia per sé una pagina, che dico, mezza pagina, mezza fottuta pagina in una qualsiasi antologia della letteratura del cazzo.
che fatica non essere nato per questo, che strazio. che peccato che non siate un milione, due milioni, un miliardo. che vergogna non essere tradotti in novantanove lingue, non aver mai pubblicato un best seller, non aver mai pubblicato.
non è giusto non essere nati per fare gli scrittori, che diamine.
diamine: Pianigiani si rifà a Caix e vi individua una "fusione occasionata dall'usanza comune di cominciare una esclamazione con una mala parola e finire con una buona": dia(volo)+(do)mine.
ogni istanza rimanda a un'altra istanza, la domanda è una maschera su una maschera su una maschera. tolte tutte le maschere qualcosa resta, non è vero che non resta niente. c'è una domanda mitica, orientale, rozza come una clava, all'origine di tutte le domande del mondo.
e come ogni domanda, quella domanda è una risposta, una e non più d'una.
fatto si è che io creda che ogni ferita dello spirito venga dal non aver ascoltato quella domanda/risposta. si è sempre in tempo per ascoltare.
come l'altra sera, che si diceva che nella vita pre-natale noi siamo lì a scrivere quello che saremo dopo, e poi quando nasciamo abbiam perso la memoria, però nel nostro dna è scritta una storia che dobbiamo arrivare a leggere.
ecco: la vita è sempre una strada dritta, o almeno a questo segretamente aspira.
il progetto che abbiamo varato per noi stessi non è affatto semplice da riconoscere, anzi, diciamo pure che è molto difficile riconoscerlo. ma in un modo o nell'altro, prima o dopo, bene o male lo riconosciamo.
Alexander Heigen Van Klouten afferma che il dna non ha buon gioco nel compiersi perché ha da scontrarsi con le aspirazioni di miliardi di altri dna. bisogna essere d'unque cazzuti assai per far valere la propria storia sulle altre.
sono d'accordo con Van Klouten, ma credo anche che a ben pensarci la nostra storia la riconosciamo molto molto presto; e noi stessi siamo portati a complicarla per un motivo semplice: le trame prevedibili sono noiose.
adesso però ho da chiudere anche l'ultima parentesi retrograda, perché manca davvero poco alla mia spedizione e ho tante cose da fare. e mi servono due braccia così, un cervello a forma di cono d'acciaio, stomaco di cuoio, faccia come il culo.
una specie di mazinga.

martedì 2 giugno 2009

Ai tiùns

non c'è paura di castrazione.
balleremo, danzeremo.
è che quando ci sono due frastorni insieme tutto è in ordine.
di tanto in tanto mi si rimprovera qualcosa. a volte è che non mi lascio andare, altre volte è che scrivo per scrivere, che in realtà non dico nulla.
e ora una tromba, un'orchestra. una cosa un po' strana, a dire il vero. strano, è così che si definisce ciò che non siamo in grado di definire. ma bello però. magari un tocco di disordine, ma bello.
ma in fin dei conti il blog è mio e ci faccio quello che mi pare. è questo il bello. per la cronaca si tratta di alber ayler. la grande storia del jazz.
non posso non tacere un fatto: sono sparite delle foto, e questo mi ha fatto stare male. non ho capito bene come sia potuto succedere, e non mi piace.
avrei tanto voluto che non ci fosse paura di castrazione, e che si potesse davvero ballare.
ma invece qualcosa nella mia testa non ha mai funzionato, e ci siamo trovati troppo spesso fermi a guardare il brutto del mondo, a pensare, a pesare. a riempirci le rispettive facce di schiaffi rossi e squillanti.
APPLAUSO
rullatina di chiusura
poi musica al contrario
stavolta sono i death cab for cutie
io li amo
sono strepitosi, sempre
non c'è una nota che non mi vada giù, vorrei essere loro
è come l'amore, vorrei essere lei, vorrei essere te, avrei voluto
ma ora sono quasi lontano, quasi sull'aereo, quasi perduto, quasi vivo
tra le altre cose al tavolo stasera si diceva che dovremmo liberare il romanticismo che è parte di ognuno di noi, lasciare che parli, che dica quello che vuole, senza paura di essere ingoiato dal buonsenso, non ci interessa.
è bello pensare ad una mansarda al sesto piano, senza ascensore.
la musica va sfumando, dopo che certe voci hanno ribadito un certo concetto abbastanza a lungo,
e poi di nuovo quegli accordi mandati al contrario, e ancora voci, ma più lontane, più di donna.
e poi rallenta, poi ti fa capire che sta finendo, ma non finisce ancora, piano piano svanisce, senza svanire, ecco ora c'è, ora quasi non c'è più, ecco.
e poi silenzio.
chitarre.
cinema show, genesis.
stiamo a sentire.
non ho memoria per ciò che conosco meglio.
ora sì, ora va meglio, accordi rassicuranti.
peter gabriel, lo odio, non ho mai tollerato la sua voce, troppe parole, troppa voce, igombrante.
sarebbe stato bello sentirli senza di lui, per sfregio.
cantina, appartamento, scale.
forse l'obiettivo è davvero quello, raggiungere il sesto piano a piedi con una sbronza sulla coscienza.
ecco phil collins, finalmente, la batteria.
troppi accordi.
vorrei invece una musica stupida, in cui non succede niente, succede poco, quello che basta.
dovrebbe essere così.
mi chiedo come sia possibile dire di conoscersi e poi non riuscire a fare le cose più naturali, come parlare, o addirittura non parlare affatto.
come quella volta, che c'era quella strana serranda di canapa e stavamo in mezzo alla strada.
na na na na na na na na na na na na na
e probabilmente stavamo in mezzo alla strada senza saperlo, e sai di che parlo.
skippo, perché è consentito farlo, i genesis durano troppo.
ecco elio e le storie tese, gimmi I.
e poi c'è bisio che racconta le barze di pierino.
skippo, skippo ancora,
e poi qualcuno che sembra stephen malkmus. mi piace lui, molto, forse mi piace perché piace solo a me.
e tutte quelle volte che non si capiva bene perché.