domenica 31 maggio 2009

Nuovo post


non resta che scrivere un nuovo post. occorre che affondi il bisogno di scippare il senno agli dei.
perché poi finisce che si ricomincia, e non è un bel modo di finire, questo l'abbiamo detto tante volte eppure è sempre il caso di ribadirlo.
il notturno n3 è un coacervo di rifiuti umani e io non faccio eccezione. certo, sono meglio della sbrattata prossima alla discesa, giù in fondo al mezzo, e del suo ex proprietario ceruleo, e probabilmente la vita ha sorriso più a me che non a quel mucchio d'ossa grigie raschiate dall'eroina qui accanto. tutti pieni di sonno e perlopiù senza denti. e poi io.
non mi chiedo che ci faccia in mezzo a quest'umanità devastata.
mi dico solo che ci si presenta un dovere preciso, un dovere soffice che è il dovere di essere felici.
è proprio questo che intendo quando dico che non si può più scippare il senno agli dei.
scippare il senno agli dei è come levarsi la sete col prosciutto, né più né meno. è come rubare il poco agli idioti.
bisogna svegliarsi al mattino, all'ora che meglio conviene, e cessare ogni trottoleria, all'istante. a farci girare la testa ci pensano i sogni. nel resto del tempo sarà meglio attivare una volta per sempre quel barlume di speranzoso raziocinio che ci contraddistingue.
ultimamente insisto su questo, sul fatto cioè che bisogna rammentarsi quello che siamo, stupendi regolarmente iscritti alla facoltà di intendere e volere presso l'universo degli stupidi. lo è -iscritto- chiunque lo voglia, senza distinzioni, nei termini efficacemente descritti nell'articolo 3 della Costituzione, ad esempio, e non solo.
va sempre, sempre tenuto a mente questo:
1. se vuoi qualcosa prendi quel che vuoi. se non vuoi quel qualcosa non prendere neanche quello che c'è intorno, sotto, sopra, dietro, davanti, di lato o di fianco a quel qualcosa.
e questo:
2. non siamo nati per essere nulla: siamo nati per accettare il fatto di essere nulla.
e questo:
3. se non vuoi niente, va bene, nessun problema. ma rammenta sempre che hai il dovere di essere felice.
e questo:
4. l'illusione non è sempre inganno. a volte ci illudiamo di star male e invece stiamo piuttosto bene.

definitivamente, bisogna soffiare via il dubbio e appigliarsi alla certezza di cui al punto 2.

giovedì 28 maggio 2009

Il mio ragno per un cavallo

per un istante ho creduto che avrei citato ligabue. il cantante, intendo. anche perché di citare un pittore non sarei capace.
ma il punto è che ligabue mi fa cagare, come i rem, gigi d'alessio e pochi altri. gente che non sopporto, che non capisco.
la verità è che, come sempre da quando mi conosco, il mio punto di vista sulle cose varia ad una velocità pazzesca. o forse varia perché non mi conosco, e infatti da quando ho iniziato a conoscermi meglio, in effetti, il mio punto di vista sulle cose varia un po' meno velocemente.
il fatto è che certe volte ascolto la radio, e ho la sensazione di non essere solo, e non perché c'è una voce che mi parla, ma piuttosto perché ci sono orecchi che ascoltano quella voce esattamente come fanno i miei.
il fatto è che a volte le strade mi sembrano lunghe, interminabili, e un istante dopo eccomi a destinazione.
mi rendo conto che il mio modo di ragionare, che poi è il mio modo di scrivere, è una specie di relativismo spiroide e ascientifico, dotato di principi forti e labili fini, fini nel duplice senso di conclusioni e di scopi.
e il fatto è anche che quando uno cessa di essere stanco allora avverte la stanchezza vera, quella che guarisce col riposo. mentre quando si è stanchi non si ha mai voglia di riposare.
come dire che ora, ora che non oserei cambiare una virgola di quel che è stato, semmai si potesse, riesco a stare al tempo stesso in ambienti diversi. diciamo che c'è un momento in cui la velocità diventa tanto vertiginosa che si ha la sensazione di stare sempre in un punto, in un centro. o forse si è talmente fermi da subire con maggior forza (direi con maggior debolezza) l'attrazione di quel centro.
di nuovo e sempre quel relativismo spiroide e ascientifico che è quello che io sono e penso e scrivo. di nuovo e sempre.
la somma è semplice: se potessi scambiarmi la vita con qualcuno, mi prenderei la mia. ma sul serio, però. proprio così: darei la mia vita in cambio della mia vita.
e la cosa assurda è che ho la sensazione che si possa fare.

martedì 26 maggio 2009

Articoli

quando tutto inizia a prendere forma è possibile che niente inizi a perdere sostanza, e allora vuol dire che le cose girano per il verso giusto piuttosto che andar dritte per la strada sbagliata.
quest'inizio testimonia del fatto -e nient'altro- che preferisco giocare con le parole piuttosto che essere serio con le cose. non è detto che una cosa escluda l'altra, ma è detto senz'ombra che l'altra non esclude l'una.
e perché mai adesso questo nodo, questo laccio emostatico? perché? questo mezzo bisogno di tornare al regno della preterintenzione, della colpa, del piove? è proprio che non c'è da scherzare.
con le cose c'è da essere seri, anche se si scherza con le parole.
non bisogna dimenticare l'inviso, bisogna tenerlo da conto, mostrarlo a se stessi quando serve.
il concetto è molto semplice, sebbene possa risultare incomprensibile ai più: si può scegliere se calcare il dolore innecessario oppure cavalcare la più macchinosa delle felicità. è difficile sottrarsi al desiderio del vacuo. dover riconoscere i confini dello spazio dà la nausea, impastarsi col nero è una fine comoda. ma se la fine arriva prima della fine, allora è la fine davvero.

quindi c'è l'urgenza di un inizio, di una sublime fiorescenza di inizi
lontano dai versi petulanti, dalle fluttuazioni in orbita,
dagli evitamenti e dai forsemegliocosì. non mi interessa ascoltare. posso fingere, se va bene a voi.

in fondo, a ben guardare, è tutto chiaro, anche se non ci arrivano i raggi del sole. nel fondo, intendo.

lunedì 25 maggio 2009

Marmo r.t.o.


come una molletta per topi, il sospetto di non poter smettere di scrivere mi morde il tallone vanificando ogni mio tentativo di fuga.
stamane ho aperto gli occhi ed ero sveglio. e non è una cosa normale, non è affatto ovvio. è questo il genere di cose che mi fanno correre al riparo -ahi, la morsa- mi impongono di scrollare via qualche parola dalle dita, con le cattive, col ghigno, con occhi gialli su fondo nero.
la città era una centrifuga impazzita, complice un accompagnatore dotato di uno spiccato senso dell'umorismo (ma non del limite). il mercato erano tre tende in croce, e poi il deserto, nessuno, niente.
andiamo avanti, anche se sembra idiota, avanti a scrivere.
ma io non ho più niente da dire!
scrivi!
ma...
basta, ho detto scrivi, va' avanti, scrivi.
scrivo.
ma ogni parola pesa, il mio foglio è di marmo, lo scalpello è piombo, ogni lettera è spasmo, è sudore.
niente ma.
e non salvare, non rimandare, non trattenere, non aspettare, non guardare, non rileggere, soprattutto.
va' avanti avanti avanti, non ti fermare, non trattenere.
si è brutti a volte, bisogna starci. oggi scrivo brutto, orrendo, oggi non so.

domenica 24 maggio 2009

O dagli inferi, ma piove


tra l'indice e il medio c'è un altro dito, mi han detto, che è invisibile ma conta come gli altri. e se includi questo dito invisibile, che si chiama inviso, allora conti fino a sei e sei dodici. mi hanno detto anche che, pur trovandosi tra il medio e l'indice, il dito inviso va contato sempre per ultimo, perché se lo diteggi come terzo di sei -secondo l'ordine tradizionale, dal pollice al mignolo- va a finire che qualcosa non ti torna.
è curioso che questa notizia, un po' stranetta per la verità, mi giunga ora. ora che ho conferito una mezza specie di svolta razio-cinica alla mia vita, al mio blog, alla mia barba e dio solo sa a cos'altro ancora.
la notizia staordinaria sbraca il passo all'unificazione dei due principi ontologici del being human (e non già dello human being, 'ccoperché non ho utilizzato l'espressione essere umano, in cui l'infinito ha funzione nominale, mentre a me quell'essere serve in una funzione verbale che l'espressione italiana non sa restituire):
1. il pollice opponibile (di cui si occupa, diciamo, l'antropologia fisica);
2. la facoltà d'astrazione (che ha a che fare invece, per farla breve, con l'antropologia culturale).
i suddetti principi vanno d'unque tra loro a unificarsi con la scoperta dell'inviso poiché esso è al contempo φύσις e ψυχή, fenomeno e noumeno, geometria e algebra.
se il pollice è la chiave dell'opposizione e del consenso, l'indice addita, il medio sa offendere, l'anulare è testimone talora falso e il mignolo fa la pace, l'inviso è il dito che determina l'intenzionalità dei gesti. ognuna delle funzioni digitali sopradescritte può infatti essere compiuta in modo consapevole e responsabile, circostanziata e utile, oppure no.
l'inviso in buona pratica sottrae alla mano la facoltà astrattiva intesa come defunzionalizzazione del gesto, per restituirle essa facoltà nelle forme e nelle sostanze della produzione simbolica.
il che significa, molto semplicemente, che senza l'inviso la mano non sarebbe capace di produrre senso e non saprebbe generare gesti non finalizzati alla comunicazione o a qualsivoglia altra funzione utile all'evoluzione della specie umana.

sabato 23 maggio 2009

Il sonno della ragione genera mostre


un modo efficace per evitare di rileggersi ad oltranza -ciò che è incepparsi in una viziosa, immobile vanità del cazzo- è scrivere, scrivere di nuovo. vanitosissimamente scrivere.
il punto è che gli umani, esseri non scevri d'un'irritante faciloneria, tendono a confondere quasi sempre il mezzo col fine, la causa con l'effetto, il contenente col contenuto, la metafora con la metonimia, l'orologio con la bussola, il cuore con la testa, il diavolo con l'acquasanta. sia chiaro che qui il termine "confondere" non sta a designare alcunché di negativo; la confusione è una pratica auspicabile, positiva e creativa, purché sospinta da una robusta dose di rà-ziò-nà-lì-tà.
d'unque ciò che ho affermato su in cima sta a dire che scrivere è un mezzo utile ad evitare di leggersi, e per estensione vivere è un mezzo per evitarsi la morte, ma sarà chiaro al più idiota di voi che se uno non ha pugno per scrivere e non ha polso per vivere deve consegnarsi al gomito, il quale sa produrre all'uopo un olio dalle proprietà miracolose.
quindi, per dirla con altre parole, quando vengono a mancare l'ispirazione e l'aspirazione, che sono rispettivamente la linfa dell'arte e quella della vita, bisogna appellarsi senza appello ad una musa brutta, cafona e intransigente: questa musa si chiama Fatica.
Fatica è come il rospo delle fiabe, se la baci o lasci che per una lunga notte alberghi sul tuo cuscino poi si trasforma in qualcosa di diverso. Fatica va intesa come confusione razionale:
1. perché è pur sempre vero che si può faticare tanto ottenendo poco, ma ciò significa che si è faticato a cazzo di cane. il tale disse, e dipinse, che ad andare a letto senza ragione si finisce per ritrovarsi in camera col rospo, o animali d'altro genere. insomma, è chiaro: la ragione del sonno non mostra generi.
2. perché è vero anche che razionalità senza confusione equivale a prevedibilità.

lasciatemi andare vi prego.

giovedì 21 maggio 2009

Bay Journey


non ho davvero alcun bisogno di sentirmi ridicolo.
certe volte pare sia quasi inevitabile. ma non è mai utile, fidati.
ci si rende ridicoli quando si è costretti a dimostrare qualcosa. ma ci sono due precisazioni da fare: in primo luogo, ci si costringe quasi sempre da soli a dover dimostrare qualcosa; secondo, molto spesso la costrizione e il gesto che la incarna si instaurano nel giro di pochissimi istanti d'orologio, nell'arco di un tempo impossibile da gestire, nel mezzo di un gorgo di segnali per niente facili da decifrare. ed ecco che "qualcosa" fa sì che gli occhi siano su di noi, tutti, fissi, e ciascuno sguardo s'accompagna ad un paio d'orecchie, ad una bocca tesa in un sorriso innaturale, ad un'espressione via via più imbarazzata di fronte alla nostra figura loffia.
ma è peggio, molto peggio, quando noi solo siamo testimoni del nostro ridicolo, noi e nessun altro.
quando il desiderio di rivalsa ci abbaglia e ci coglie un tremore alle mani, quando vogliamo conquistare e invece aggrediamo o ammicchiamo con troppa veemenza, quando ostentiamo indifferenza ma ci bolle il sangue, quando improvvisamente una forza misteriosa e fugace ci mette in bocca una barzelletta o un aneddoto da raccontare, dileguandosi subito dopo (la forza) tra gli alberi, tra gli alberi lontano.
per chi conserva una dose d'autostima, sentirsi ridicolo è un segnale che c'è qualcosa da fare, qualcosa di molto semplice da fare: tornare ad essere presenti. chi è ridicolo è assente, di lui si ride alle spalle, in volto gli si mostra solo un velo di pietà solidale, di comprensione pallida.

sono stato ridicolo tutte le volte in cui non ho saputo imporre le mie esigenze, è molto semplice. sono stato ridicolo a me stesso quando ho permesso che l'arroganza e l'ingiustizia mi calcassero il tacco nella gola, quando non ho avuto la prontezza di dire: vaffanculo.
senza esclamativo.
sono stato ridicolo quando ho pensato di fare tutto da solo.
lo sono stato quando non ho voluto farcela da solo.
sono stato ridicolo quando c'era di che andare via e sono rimasto, quando era meglio restare e sono andato via, quando avrei dovuto trattenermi lontano e invece sono tornato.
sono stato ridicolo quando ho tentato di trasformare la nausea in piacere, quando ho spiato, quando ho sperato.

ed eccomi presente, a disperare, a capire che la nausea è la nausea e il piacere non ha niente a che fare con la nausea, eccomi coerente, eccomi capace di chiedere aiuto, eccomi dire vaffanculo.
eccomi ripudiare, eccomi vomitare, se è necessario. eccomi credere e affermare potentissimamente che la felicità è un dovere, e che mi viene da piangere quando vedo un uomo solo che mangia una pizzetta scaldata in un bar, la sera; e mi viene da piangere non perché immagino la sua infelicità, ma al contrario, perché a ben guardare non c'è niente di infelice nel fatto di non avere niente da raccontare e nessuno con cui condividere l'assalto improvviso della fame, della sete, del sonno, di ogni bisogno primario.
è infelice non avere la forza di esprimersi.

eccomi parlare come un adolescente maledetto, mucciniano, eccomi spremere ogni brufolo con gran dispiego di poltiglie chiare, tra il bianco e il giallo.
eccomi dire che sono esausto di inesprimermi.

i sogni sanno dettarci in un istante circostanze e situazioni complesse, e convincerci che quelle circostanze e quelle situazioni siano perfettamente plausibili, accettabili e financo reali, persino quando ci accorgiamo perfettamente di essere immersi in un semplice sogno.
mi chiedo come mai da svegli ci voglia così tanto a capire cosa stia accadendo.

mercoledì 20 maggio 2009

Arbitro Liberio



di certo non merito più un giaciglio in grembo al mondo.
devo poggiare i piedi.
non c'è giustizia senza libertà, e viceversa.

ecco quelle che si direbbero alcune frasi isolate, e invece no.

di certo non merito più un giaciglio in grembo al mondo. sono semplicemente troppo grande per accomodarmi sulle ginocchia di una madre qualsiasi. non so perché, mi viene in mente vinz, ripenso a tutte le volte che ho schernito la sua saggezza un po' anomala. come tutti, egli ha dei difetti, e deve difenderli dall'assalto della perfezione. la perfezione è un'idea nefasta, odora di incenso e contiene il terrore tacito della confessione. di rado in vita mia ho provato un disagio pornografico superiore a quello della clausura confessionale; l'alito di dio mortificato nella flatulenza orale dell'intonacato d'ufficio.
al mio dio ho tagliato le gambe.
al mio demone ho garantito troppi alimenti.
a vinz ho negato il diritto all'errore.
si vede che era un periodo così, in cui non sapevo far di meglio che farmi mattone e infilarmi nel mio muro.
ti chiedo scusa, mente anonima che leggi nel silenzio. anzi, ti porgo le mie scuse senza pretendere alcunché a baratto. non posso dire che sia stato ingiusto alzare un gran casino. di certo è stato ingiusto chiedere a me stesso di essere leggero se non lo ero.
non c'è giustizia senza libertà, e viceversa.

credo sia un bene che vada via lontano.
devo poggiare i piedi.

martedì 19 maggio 2009

Domande mal poste

oggi mi hanno detto grossomodo che la mia scrittura s'è arenata, che mi censuro un po'.
dev'essere vero, com'è vero che la censura interviene proprio laddove si intravede un pensiero pericoloso. un pensiero pericoloso in tanti casi significa un pensiero utile, suscettibile di piacere a molti.
hai visto mai che mi censuro, dunque, per paura di piacermi troppo?
al di là della cazzata che ho appena detto, vorrei provare a scrivere davvero di getto, senza pesare troppo le parole.
e quel "pesare" che ho scritto poco avanti è un lapsus, avrei scritto "pensare", con una N tra la E e la S. ma è andata così.
più di una volta ho pensato (aridaje) che se la mia scrittura arranca è perché mi fermo a rileggermi, e mi incastro in un moto spiroide, scomposto, come una brutta frattura.
scrivere senza censura non significa per forza produrre una serie di volgarità gratuite. il pensiero utile non è volgare e non è gratuito, eppure procede senza inibizione. è così che vorrei pensare: senza pesare.
procedere senza arretrare è l'unico modo che conosca per diventare adulti. così mi dissero una volta: si diventa adulti non già quando ci si sposa o si va a vivere da soli, ma quando sottoponiamo simili questioni ad un vaglio serio e responsabile, sottraendole di forza al dominio dell'idea e dell'aspirazione.
aggiungerei che si diventa adulti quando tocca stare svegli la notte per trarsi fuori da una tasca vuota, o da un cuore nero, coincidenza retrattiva per appassionati dell'insignificato. già, perché nera è semmai la picca, che appare come un cuore rovesciato e munito di gambo, quasi una specie di foglia.
andare avanti significa ahimé perdere anche il filo, non di rado. tirare su un discorso che non tenga conto del passato mnemonico, ma di quello corporeo.
lo so che non mi spiego bene, ma non ha alcuna importanza, perché ciascuna delle parole che scrivo è dimentica della precedente precedente, è dimentica della

il corpo ci dice che fare è più semplice che dire, il dire ci riempie la bocca di stupide ipotesi e indicativi futuri, il fare predilige inaspettatamente il passato prossimo, e ci si ritrova già fatti senza aver avuto il tempo di dire A.
questo è adulto, svegliarsi una mattina senza avere in testa lo straccio di un'idea, svegliarsi e andare.
può sembrare idiota ma non lo è.

pregherò il cielo di asciugarmi da quest'insonnia avida, che mi vincola ancora alla dea Idea, come fosse qualcosa che si può mangiare, toccare e quant'altro. e invece adulto è animale, è sapere esattamente cosa e non chiedersi come nemmeno per un istante. è trarsi fuori da una tasca vuota senza fiatare, senza chiamare qualcuno in nostro aiuto, senza rompere i coglioni, in sostanza.

e già che ci sono inizia a piacermi questa cosa dello scrivere senza specchietti retrovisori, o specchietti per allodole e altri uccelli. perché adulto è anche decidere di ribaltare l'universo una volta per tutte, e credere che andrà bene, perché male non può andare, una volta appurato che prima o dopo tutto quanto in qualche modo ineluttabilmente finisce.

per non dire del fatto che ciascuno di noi può testimoniare di essere vivo, ma ad oggi nessuna fonte autorevole ha riferito mai di qualcuno che dicesse in prima persona "io sono morto" se non in senso traslato o in previsione di un qualcosa che ovviamente non s'era avverato ancora al momento della dichiarazione.
tant'è che tutti possiamo dire che la vita è, e quindi sarebbe il caso di viverla fuori dall'angoscia del perché, immersi finalmente in un mondo di fatti e misfatti, di affermazioni e negazioni, di io e di te, senza cercare risposte.

e se mai ammettessimo domande e risposte, teniamo a mente che non esistono risposte sbagliate, esistono solo domande mal poste.

lunedì 18 maggio 2009

Intervallo

esattamente due anni fa accadde qualcosa che avrebbe per lungo tempo congestionato le mie emozioni.
niente di grave, in teoria; fu qualcosa, però, che mi diede l'esatta misura della mia inconsistenza, della mia incapacità di vivere una vita emotivamente sostenibile. da allora ho iniziato a spiarmi. il tempo e la fatica mi hanno svelato cose che di me non sapevo; mi hanno timidamente suggerito come dare spazio a desideri che appartengano solo a me.

sarebbe stato enormemente più bello scoprire per tempo che i desideri miei e quelli degli altri potevano coincidere.
ma senza quel delirio non avrei mai riconosciuto le condizioni essenziali alla condivisione di un desiderio.

domenica 10 maggio 2009

Cul de sac

(testo e musica e voce di luca gaigher)

mi viene in mente una notte di tanto tempo fa, ma nemmeno troppo tempo. una notte gommosa, rifrangente, una specie di buco nero, una notte che non passa mai, che dura un'ora, mezz'ora, senza sonno. una notte dei tempi. la tormenta silenziosa, l'ossessione, la nausea, la lucidità, le certezze fioche di un'alba che somiglia tanto ad un tramonto, perché è già ora di alzarsi eppure non è mai arrivata l'ora di dormire.
ci sono notti in cui la coda di un incubo ci fa svegliare di colpo e ci sorprendiamo a pensare che tutto sommato l'incubo era anche un po' meglio di questa stanza semivuota, di quest'aria vischiosa, di queste voci gotiche d'uccello oltre la finestra puntellata oramai di piccoli ovali celesti. e ci si chiede come potrà mai darsi un giorno più giorno di così, una veglia più veglia di così. chiudo gli occhi.

apro gli occhi e mi ritrovo il cellulare in mano, è una specie di frutto nero. lo schermo mi informa che dovrei essere al lavoro da un quarto d'ora, bestemmio iddio blasfeta, salto giù dal soppalco che geme, beccheggia, mi metto addosso le cose di ieri, di poco fa, faccia, denti, macchina, lavoro. mezz'ora di ritardo ma non importa, non importa niente a nessuno, non c'è nessuno a parte me.

questa sì che è una droga seria: l'adrenalina. gratuita entro determinate quantità, pericolosissima. resta da capire come si fa a procurarsene una dose nella notte dei tempi, quella notte lì, rifrangente, quella che non passa mai e dura un'ora, neanche, e che ti inghiotte e che ti vomita lontano.

sì, perché l'adrenalina si compra solo a suon di ritardo e soprassalto, ritardo e soprassalto. e io sono dipendente da questa specie di pioggia sottile, infinitesima, interiore, calda, fredda, vapore di stella. come l'estate che avvampa, che è una lacrima enorme e stordisce, e rende enormi mosconi.

ho meritato sonni tranquilli e ho indossato i panni dell'incubo, guardandomi sbalordo allo specchio nero di quella notte lì, di cui s'è detto. chiedevo che non ci fosse bisogno di schiantare ogni speranza prima di farsi del bene, che si potesse sparire in un qualche mare tiepido senza per questo giocare a nascondersi nell'abisso e riemergere con la faccia di pesce lanterna, con lo sguardo scolpito nell'ombra, con in mano una tazza di acqua calda che ha l'odore inconfondibile del rimedio.
la pozione, l'elisir, è inodore, invece.

avrei dovuto giocarmi per tempo il ruolo del pianoforte a coda, come un demonio, senza coperchio, così che ci si potesse sdraiare sui tasti e suonarli tutti in uno e così da poter stregare una buona volta e senza appello quello stradone secco, quello degli operai magiari che giocano a carte all'impiedi.

quello di quando ero così lontano che non si riusciva a vedere quanto fossi bello.

domenica 3 maggio 2009

Buona sostanza

in luogo zero -ovverosia a guisa di premessa- oserei dire che, a seguito del commento n° 6 al mio post precedente, ho maturato l'idea che un post non debba necessariamente essere -come fin troppo sovente accade- un'occasione di confronto. a dire il vero quest'idea era ben salda in me un'infinità di tempo prima che la "maturassi", ma si vede che per un po' me n'ero dimenticato: m'ero scordato del fatto che lo scrivere, in sostanza, è un qualcosa che non si discosta mai troppo dall'edonismo dei caratteri stampati o luminosi per i quali passa e da quello dei suoni interiori o esteriori che lo stesso scrivere suo malgrado produce.
in altre parole non c'è mezzo e non c'è fine; e questa è la sola premessa utile ad uno svolgimento che sia sano davvero, sul foglio bianco come sul foglio elettronico, come nella vita.
ecco, io in primo luogo volevo chiedere scusa se mi ostino ad omettere le maiuscole, tipo enrico brizzi nel suo romanzo più noto. ma non è il residuo di un vezzo tardo-adolescenziale, il mio. è che le mie mani hanno una coscienza, coscienza che s'è formata negli anni elettrici ed ellittici dell'università, anni in cui ho fatto un uso consistente di microsoft word, per compilare un paio di tesi di laurea e una decina -forse- di relazioni/saggi/tesine: tutta una serie di questioni, insomma, che si risolvevano genericamente alle 5 del mattino del giorno della consegna, con una sigaretta tra i denti, nell'aria salata, in finestra.
e si sa -questo è il punto- che word le maiuscole te le mette in automatico.  quindi, insomma, mi sono abituato a scrivere senza badare allo shift e -anche questo si sa- quando ci si abitua a una comodità è difficile tornare indietro.*

* se è per questo, word ti fa tutta una sfilza di correzioni automatiche non richieste.
ora, i più occhialuti tra voi obietteranno che un computer fa esattamente quello che gli ordini di fare, né più né meno. i più simpatici sapranno ammettere che invece il computer ha una propria autonomia, e un carattere ben definito. al che gli occhialuti, per recuperare in extremis un barlume di simpatia, ribatteranno: sì, d'accordo, il computer ha un carattere ben definito, ma è lo stesso per tutti i computer: un carattere da stronzo.
tante parole per dire, insomma, che il vezzo della minuscola non è mi è vezzo, ma vizio.
c'è anche il fatto che, per l'allergia che mi dà la carta -non in termini fisiologici, ma figuràti- non scrivo mai a mezzo di penna o matita. e il foglio elettronico spesso mi si impone col suo blank, colmandomi, vuotandomi, empiendomi di niente.
e qui, poco avanti, in una frase, ho detto tutto, tutto quello che volevo dire: che cioè ogni cosa è senza dubbio il contrario di sé: così come blank e black hanno la stessa radice, e quindi l'assenza di colore o la somma di tutti i colori in qualche modo si equivalgono.

e questo, tutto questo, era grossomodo ieri.
oggi è diverso, è già un secondo luogo. il lunedì mattina dormo, dormo fino a non poterne più, a non volerne. poi bevo mezzo litro d'acqua, mangio un paio di gallette di riso. mi faccio un tè.
mi dico che si può stare così, lontani dal tabacco e da altre sostanze.
mi dico che, se per caso in una vita tutto fallisse, ci si dovrebbe per tempo ricordare almeno del corpo, e dargli un'esistenza sana; sicché -come si crede- la mente si conservi sana assieme al corpo.
queste considerazioni spontanee me ne ispirano un'altra, meno spontanea:
prima di tutto, quelli che chiamiamo "piaceri del corpo" sono cose troppo facilmente confondibili con l'eccesso, il vizio. eviterò di addurre argomentazioni di foggia chiesastica. quello che voglio dire è che il corpo, che è un prodotto della natura, prova piacere quando smettiamo di tormentarlo. lungi da me un percorso a ritroso che giunga alla negazione della società contemporanea quale fonte di ogni squilibrio cosmico: l'uomo e il tormento nascono insieme; la tassa sul macinato, l'industrializzazione, l'informatica e la televisione non c'entrano niente.
voglio solo dire: non dovremmo lasciare giusto un po' in pace -almeno ogni tanto- l'involucro che ci contiene, che contiene il nostro io, il nostro ?
questo non è difficile: è impossibile, perché la vita di una persona qualsiasi è perlopiù una strada -spesso asfaltata- irta di condizioni, coalizioni, colazioni, immolazioni, ammortamenti, documenti, indumenti, mal di denti, mal di testa, mal di stomaco, stitichezza, stanchezza, stanze, distanze, ritardi, torte, feste, cene, pizze da asporto, mezzi di trasporto, mezze minerali, sali minerali, fuochi artificiali, finzioni, protesi, ipotesi, tesi, tensioni, distensioni, indigestioni, alka-seltzer, casette, calzette, cazzi e mazzi, zoccole, zuccheri, cucchiaini, cappuccini, zaini, libri, lezioni, lettori mp3, cuffie stereo, coffee break, pause, impegni, agendine, accendini, sigarette, frette, orologi, orgogli, gorgoglii, golgota, calvari, cavalli, scommesse, sconfitte, confetti, cofanetti, sarcofagi, sacripanti, saltimbanchi, banchi, banche, bocche, becchi, buche, barche, borchie rubate, bici rubate, baci rubati, rossi rubino, verdi smeraldo, gialli oro, galli d'oro, osterie, abbuffate, buffonate.
ancora una volta è andata così, siam partiti da un certo luogo e non si sa bene dove siamo andati a finire.
mi faccio un caffè.