sabato 11 aprile 2009

Equi libri


io e piòtr ci si rincontra sempre per caso, qua o là, ed è bello così. l'altro giorno camminavo lungomare, un po' sperduto, senza meta né vicina né lontana. guardavo gente seduta sulla renella, seduta o in piedi con un pallone e un ragazzino, o col cane, seduta con un libro, con una persona accanto, con una persona tra le braccia, tra le labbra. pensavo a me dal di fuori, mi chiedevo se il mio passo dal di fuori sembri pesante così come lo sento io, mi chiedevo se da fuori sembro un sacco di sabbia, perché è così che a volte mi sento. e non è necessariamente una sensazione sgradevole, è perlopiù una sensazione neutra.
e nel bel mezzo di questa domanda me lo ritrovo di fronte, piòtr, in ciabatte da mare, infilato in un paio di calzoni né lunghi né corti, in una camicia ampia, di colore chiaro, chiarissimo, vicino al bianco. lo riconosco subito dall'andatura un po' danzante e da quel sorriso che è un equilibrio friabile, come di biscotto triangolare, un sorriso di baricentro, tra tre vertici, tre espressioni: 1. la so lunga; 2. sono un idiota completo; 3. sono felice. che poi, in fondo, sono tre espressioni abbastanza sinonime.
il sole è alto, illividisce tutto, anche piòtr da lontano sembra poco più che uno spaventapasseri, una sagoma, ma cammina, sta a favore di vento e cammina, e va. nella testa i pensieri miei fanno come fossero a casa loro, vanno avanti, evolvono, crescono, invecchiano, muoiono e rinascono, fuori da ogni tempo. e piòtr si avvicina, io mi avvicino a lui, ci avviciniamo. alza un braccio, anche lui mi riconosce quasi subito, anche se non so da cosa mi riconosca. e come un frutto improvvisamente maturo mi viene in testa una domanda: cosa mi rende riconoscibile?

piòtr: quanto tempo!
transfuga: quanto?
p: non tanto, in effetti..
t: vero. né poco né tanto.
p: vero?
t: vero

e allora faccio a lui questa domanda, questa domanda che m'è balenata in testa.

t: cosa mi rende riconoscibile, secondo te?

e mentre faccio questa domanda mi viene il sospetto che sia una domanda un po' cretina, e sicuramente forzata, una domanda matura -perché le cose che balenano così, dal nulla, spesso si stanno preparando da tempo a venir fuori- ma incastrata senza criterio in una conversazione già avviata, ancorché acerba.
e un istante dopo mi accorgo, appunto, che è una domanda che volevo fare a qualcuno da tanto, da sempre.

t: cosa mi rende riconoscibile?
p: il contorno. il sole è alto, il cielo livido, i colori non si distinguono, e non si distinguono bene nemmeno i tratti e le espressioni dei volti. ti si riconosce dal contorno.
t: dalla sagoma del corpo? della faccia?
p: non proprio. l'ultima volta avevi i capelli più lunghi, e forse faceva più freddo, o più caldo. dal contorno, ti si riconosce, dalla maniera che hai di spostare l'aria, di modificare i pensieri quando qualcuno ti si avvicina.
t: che pensieri avevi e che pensieri hai?
p: prima pensavo a questo (e fa un gesto col braccio lungo l'orizzonte bianco, e il palmo rivolto verso l'alto), ora penso improvvisamente ad un sacco di sabbia.
t: un sacco di sabbia?
p: un sacco di sabbia. ti ho riconosciuto da questo, dal pensiero che m'è balenato in testa all'improvviso: un sacco di sabbia. lo spostamento d'aria, la tua vicinanza, mi hanno fatto pensare a questo: un sacco di sabbia.
t: un sacco per dire tanto? o per dire un sacco, un sacco di quelli di tela, di quelli di patate o della spazzatura?
p: non lo so. non faccio distinzioni tra parole e cose, lo sai. non ne sono mai stato capace.
l: nemmeno io, almeno non sempre. e basta, però? non mi si riconosce da niente altro?
p: sì, forse da qualcos'altro. ma non è una tua peculiarità, non è un qualcosa che hai esclusivamente tu. è qualcosa che ciascuno a modo proprio ha.
t: di che si tratta?
p: si tratta del baricentro. le persone si riconoscono da questo, dal baricentro che hanno, dal punto in cui tende a riposare lo sguardo altrui, lo sguardo di chi le guarda. e spesso la bellezza, la simpatia, il carisma, il fascino, dipendono da dove hai il baricentro. gli idioti, i fubri e i felici e gli hanno il baricentro sulla bocca, una bocca a forma di triangolo, più grande se sono accesi, più piccola se sono spenti. i belli lo hanno più sotto, tra mento e collo. gli infelici lo hanno sul basso addome. tu lo hai poco più in alto. ma a volte se ne intravede un altro, in te, di baricentro. non si capisce bene dove. sui polsi, forse, o sul naso.
t: e i carismatici, gli intelligenti?
p: i carismatici e gli intelligenti hanno qualità equamente distribuite tra gli occhi e le mani, e spesso portano le mani in prossimità degli occhi. quando sono insicuri si tappano gli occhi con le mani, o si grattano la testa. quando sono sicuri di sé tracciano geometrie nel vuoto.
t: e i ricchi, i poveri?
p: i poveri sui piedi, i ricchi sul petto. i cattivi su un occhio solo. i buoni sulla nuca, gli stronzi sulla schiena, i simpatici sulle chiappe o sulle cosce.
t: i sovversivi invece? aspetta, lasciami indovinare. sulle spalle.
p: era facile, questa. i sovversivi sono una figura residuale. ce ne sono pochi, in giro. se non hai da fare andiamo a cercarne qualcuno. cerchiamo, insomma, qualcuno che abbia qualcosa da insegnarci.

e io e piòtr ci incamminiamo lungo il mare, e poi torniamo verso l'entroterra. calchiamo strade bianche di sole, parchi secchi, piazze deserte.
camminiamo in silenzio ma ciascuno di noi, ne sono certo, sta pensando a questo: è arrivata l'estate.

venerdì 10 aprile 2009

Sette Latte

è un'epoca laida.
sarà il fondente nero di questa pagina. sarà questo che mi ha trattenuto a lungo dallo scrivere. o forse l'inutilità del gesto, o il fatto di non avere niente di buono da raccontare. un buon racconto ti tiene in vita.
del resto c'è un tempo per raccontare e un tempo per fare tutto il resto, tutto ciò che non è raccontare ma -così dicono- è vivere, o qualcosa di simile.

tutto quello che riesco a dire è che mi dispiace.
mi dispiace il nero fondente, mi dispiace il disordine, mi dispiace l'incertezza, il delirio, la cattiveria di cui sono capace per incapacità di vivere, di raccontare.
non c'è sconfitta, c'è solo un bruciore. e mi tiene in guardia, mi tiene in vita, questo bruciore.
vittorini diceva che ci sono due categorie di scrittori: quelli che ti fanno dire: è proprio così; e quelli che ti fanno dire: non ho mai pensato che potesse essere così.
tutto ciò che so dire io ora -a parte che mi dispiace- è questo: non ho mai pensato che potesse essere così. come se leggessi il libro di uno scrittore un po' svitato; henry miller, per esempio. un gorgo di accadimenti fastidiosi, brucianti, caustici, superflui. una storia il cui protagonista è una comparsa, una vittima designata, gesù cristo, pinocchio, ulisse.

i miei sono accadimenti generati dal fatto che io, a volte e per lunghi tratti, non sono in grado di guardare in faccia le cose e comportarmi da cristiano.
dico "cristiano" come lo direbbe carlo levi, per intenderci. anche se non ho letto il romanzo.

resta il fatto che ho sbagliato qualcosa di grosso. e a pensarci, mi fa male anche il fatto che nessuno commenterà questo post, nessuno se ne sbatterà niente di questo, di questo racconto sconnesso, un po' maledetto, un po' spigoloso, sicuramente vuoto, poco interessante.
ma non c'è sconfitta, c'è solo un forte senso di gravità.
riesco solo a dire che mi dispiace. è un po' di tempo che rinuncio alla coerenza, alla dignità, al sogno, all'ambizione. mi dispiace molto, questo mi fa essere ingiusto, fino alla follia, o quasi.
si dovrebbe -e uso il condizionale-, si dovrebbe, dicevo, squarciare il nero fondente e assaggiare il sapore del latte. sprofondare con il muso nel latte, quasi annegarci dentro, come un cucciolo. ecco l'unica felicità possibile: il latte.

sarebbe bello che il bianco abbacinasse tutto, cancellasse ogni suono, ogni rumore. che dalla cecità e dalla sordità nascessero tonalità nuove, diversamente belle.
ma anche no, per usare un'espressione abusata: anche no. i colori sono quelli che sono, sfumature infinite di uno spettro circolare, eppure percettibili come 7 bande distinte nell'arcobaleno (mi sono sempre chiesto che fine facciano il marrone e il rosa). e così le note, infinite eppure eternoritornanti, innumerevoli eppure 7.
curiosa similitudine: do re mi fa sol la si, rosso arancione giallo verde blu indaco e violetto, sette colori e sette suoni.
sette spose per sette fratelli.

sono un intransigente. questo mi ferisce nel profondo, mi strappa via le viscere, mi fa sentire vuoto e superfluo. sono un intransigente, come la storia e l'esperienza, che riducono tanto la luce quanto il suono ad una scala di sette gradini.

chiedo davvero di essere perdonato.